
Il viaggio artistico e politico del drammaturgo inglese che ha trasformato il teatro moderno – tra tensione, memoria e impegno sociale.
Harold Pinter, nato il 10 ottobre 1930 a Hackney nell’East End londinese, resta una figura nodale nel panorama teatrale del Novecento. Singolare figlio di immigrati ebrei dell’Europa dell’Est – un sarto e una casalinga – Pinter cresce in un quartiere popolare, vive la scuola come luogo di scoperta teatrale e di parola, e fin da giovane avverte il peso delle assenze: le sue origini, la guerra, i silenzi che lacerano le comunità.
Dopo la Hackney Downs Grammar School, Pinter accede alla Royal Academy of Dramatic Art nel 1948, ma la abbandona presto. Non per un rifiuto dell’arte scenica, ma per la ricerca di una forma propria: che sappia fare del non detto (dei silenzi, delle omissioni, delle pause) non un limite, ma uno spazio attivo, evocativo, inquietante.
Nel suo teatro, la tensione pulviscolare si insinua nelle relazioni quotidiane, nelle dinamiche di potere domestico, nell’attesa di un evento che forse non arriverà. Opere come The Birthday Party, The Caretaker, The Homecoming e Betrayal non sono solo spettacoli drammatici: sono mappe di ambiguità, dove la parola cerca di sfondare il muro del silenzio, ma spesso si arresta – lasciando il pubblico a fare i conti con ciò che rimane non detto.
Nel 2005, il riconoscimento più alto: il Premio Nobel per la Letteratura. La motivazione è pregnante: Pinter ha “svelato il precipizio sotto il chiacchiericcio quotidiano e forzato l’entrata nei luoghi chiusi dell’oppressione”. Non un elogio della verbosità, ma dell’ascolto, della scrittura come resistenza, – come l’atto di aprire finestre in stanze chiuse.
L’impegno politico di Pinter fu innegabile: nelle interviste, nei saggi, nei suoi appelli contro le guerre e gli imperialismi, nella ferma adesione ai diritti umani. Morì il 24 dicembre 2008 a Londra, ma il suo lascito è vivo: nel teatro contemporaneo, nell’estetica della parola tersa, del silenzio eloquente, nella pratica teatrale che osa al di là del testo visibile.
Pinter ha rovesciato alcune convenzioni drammaturgiche: non più monologhi che espongono intenzioni, ma dialoghi che le sottraggono; non più intrecci che spiegano cause ed effetti, ma situazioni sospese che mostrano piuttosto che descrivere. Il “pinteresco” non è stilizzazione, ma pratica drammaturgica concreta: ciò che succede dietro le frasi, nelle pause, nei gesti, ha spesso più intensità di ciò che viene verbalizzato.
La memoria, la fedeltà ai ricordi traumatici o smarriti, la dimensione della potenza che si manifesta nel banale – questi temi attraversano tutta la sua produzione. È teatro che non cerca il conforto, ma il disagio come forma di verità.
(Salvatore Palita)






