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La cultura come strumento di critica, non di propaganda bellica


La cultura dovrebbe essere il terreno della critica, dello sguardo lungo sulle contraddizioni del presente, dell’opposizione alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Eppure, la decisione dell’Unione Europea di spendere 800 miliardi per gli armamenti e la manifestazione del 15 marzo indetta a Roma dal giornalista Michele Serra (sostanzialmente a sostegno di questo disegno), hanno messo in luce un paradosso: la presenza di scrittori, intellettuali e cantanti che, mentre si dichiarano pacifisti, assumono posizioni ambigue o contraddittorie nei confronti della corsa al riarmo. Figure come
Vecchioni, Jovanotti e Scurati incarnano un’intellettualità che oscilla tra legittimazione delle stanze del potere e opportunismo personale. Quale credibilità ha chi, a parole, si schiera per la pace ma nei fatti favorisce un pericoloso clima guerrafondaio? Questo articolo vuole interrogarsi sul ruolo della cultura nella critica al militarismo e sull’imbarazzo di una certa intellighenzia che sembra essersi già messa al servizio della propaganda bellica.

Roberto Vecchioni, cantautore, paroliere e scrittore, nato nel 1943, è noto per la sua carriera che spazia tra musica, insegnamento e scrittura. Laureato in Lettere Antiche all’Università Cattolica di Milano nel 1968, dove ha poi lavorato come assistente di Storia delle Religioni per due anni. Ha insegnato greco, latino, italiano e storia nei licei classici per circa trent’anni.

Durante la manifestazione “Una piazza per l’Europa” a Roma, Vecchioni ha tenuto un discorso dai tratti grotteschi e dai toni suprematisti, con un’insensata esaltazione della superiorità della cultura occidentale, citando figure come Socrate, Spinoza, Cartesio, Hegel, Marx, Shakespeare, Cervantes, Pirandello, Leopardi e Manzoni. Ha chiesto retoricamente se altre culture possiedano simili contributi culturali. Pare abbastanza evidente la malafede di questo ottantenne in pensione, dato che è difficile pensare possa ignorare l’esistenza di una grande tradizione letteraria e filosofica russa, con autori del calibro di Puškin, Dostoevskij, Tolstoj, Čechov, Majakovskij e Nabokov, solo per citarne alcuni. Una tradizione che ha contribuito in modo straordinario al patrimonio culturale mondiale e che smentisce platealmente la sua tesi sulla superiorità dell’Occidente.

Dovrebbe apparire evidente a tutti quanto sia fuori luogo e pericoloso una simile narrazione, che alimenta una forma di diffidenza facilmente traducibile in odio interculturale.

Lorenzo Cherubini, classe 1966, in arte Jovanotti, negli anni è riuscito ad accreditarsi nel sociale, collaborando con organizzazioni come Emergency e Amnesty International. Ma la sua carriera, soprattutto negli ultimi anni, è segnata da molte contraddizioni. Fanno ancora discutere i suoi mega concerti (Jova Beach Party) all’interno di aree naturalistiche, su spiagge e a ridosso di aree protette, come a Fermo, Vasto, Ravenna e Roccella Jonica. Concerti ben lontani dall’essere eco-compatibili, pur se realizzati con la collaborazione del WWF, che ha di fatto minimizzato i danni ambientali e giustificato la falsa veste ecologica di un evento privato a fini lucrativi, un classico esempio di greenwashing. Eventi attorno a cui evidentemente si muovono un carrozzone di interessi non indifferente. Basta guardare gli sponsor da cui Jovanotti si fa finanziare, come A2A, nota per l’uso degli inceneritori, in particolare il termovalorizzatore di Brescia, uno dei più grandi in Europa, e Fileni, finita sotto attacco degli ambientalisti per l’utilizzo di allevamenti intensivi, nonostante Jovanotti si dichiari vegano. Ma non siamo qui per esprimere giudizi su chi mangia o meno carne, ma per sottolineare il comportamento ambiguo di un personaggio che ha costruito la sua immagine e parte della sua carriera artistica attorno a messaggi che si contraddicono. E siccome non pensiamo che sia un ingenuo, riteniamo doveroso parlarne, specialmente dopo la sua partecipazione alla manifestazione “Una piazza per l’Europa” del 15 marzo a Roma.

Che fine ha fatto il Jovanotti che nel 1999, insieme a Ligabue e Piero Pelù, scrisse il brano “Il mio nome è mai più” in risposta alla guerra nella ex Jugoslavia, in particolare all’intervento NATO durante la guerra del Kosovo? Il brano divenne il singolo più venduto in Italia nel 1999 e i proventi furono devoluti a Emergency. Preme sottolineare che Emergency non ha preso parte alla manifestazione del 15 marzo, denunciando l’ambiguità del messaggio e la necessità di una posizione chiara contro il riarmo. Ma come giustifica Jovanotti la sua presenza in un contesto in cui la finalità reale era quella di sostenere il piano di riarmo di Ursula von der Leyen, in pieno contrasto con il suo passato di artista impegnato?

Antonio Scurati, scrittore, giornalista e docente universitario, nato nel 1969, è noto per la sua pentalogia incentrata sulla vita di Benito Mussolini e gli eventi del fascismo, di cui il primo capitolo 
 M. Il figlio del secolo, ha vinto il Premio Strega nel 2019. Opera che ha ricevuto anche un adattamento televisivo dal titolo omonimo, andata in onda su Sky Atlantic dal 10 al 31 gennaio 2025.

Dal palco della piazza del 15 marzo a Roma, Scurati ha tenuto un discorso a dir poco imbarazzante. Ha affermato che noi europei “non siamo quelli che massacrano la gente, non siamo quelli che rapiscono i bambini, non siamo quelli che invadono altri paesi, non siamo quelli che bombardano e sterminano”, per poi aggiungere: “Non siamo quelli, ma lo siamo stati. E proprio perché lo siamo stati, da 80 anni non lo siamo più”. Le sue parole assumono un tono grottesco se pensiamo che l’Italia ha preso parte a tutte le missioni NATO degli ultimi decenni, dai bombardamenti su Belgrado nel 1999, all’intervento in Libia nel 2011, fino alle missioni in Iraq e Afghanistan. E oggi, l’Europa fa finta di non vedere i crimini commessi da Netanyahu in Palestina. Non abbiamo forse raso al suolo Gaza e non stiamo permettendo il genocidio dei palestinesi? Scurati questo lo sa bene, ma fa finta di dimenticarsene mettendosi al servizio della retorica bellicista.

Quanto stride l’atteggiamento di questi personaggi rispetto alla realtà distopica che stiamo vivendo! Parlano di pace, sostenendo politiche di riarmo. In antitesi a chi cerca di normalizzare guerra e militarismo, proponiamo una cultura che smaschera la violenza sistemica e mette all’indice il potere che sfrutta i conflitti per i propri interessi. A noi piacciono i cattivi maestri, quelli che non si sono mai piegati alle convenzioni, che hanno dissacrato la retorica del politicamente corretto e dell’opportunismo, smascherando l’ipocrisia dietro le parole e le azioni di chi sfrutta il pacifismo come strumento di popaganda politica a buon mercato.

Antonio Gramsci ci insegna che la cultura è il terreno di battaglia per l’egemonia. Scriveva: “Il vero compito degli intellettuali è quello di smascherare l’inganno del potere e portare alla luce le contraddizioni nascoste dietro ogni discorso che legittima la violenza”. E allora, in quest’orgia di tromboni che dalle prime pagine dei giornali alle TV ci dicono che dobbiamo prepararci alla guerra, opponiamo tutto ciò che sappiamo già disturberà le loro coscienze, mettendoli davanti alle loro ipocrisie.

Suggeriamo alcune letture: Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque, che denuncia l’orrore della Prima Guerra Mondiale; le poesie di Wilfred Owen, che ha contrapposto la brutalità della guerra alla retorica del patriottismo bellicista; Mattatoio n°5 di Kurt Vonnegut, che attraverso il sarcasmo e l’assurdo ha raccontato la follia e l’inutilità della guerra.

A queste opere accostiamo le pubblicazioni a cui indielibri ha contribuito a realizzare attraverso il concorso “Cóntra, racconti brevi di guerra”: Cóntra (Catartica Edizioni, 2022), Il messaggio del vento e Sotto un cielo limpido (Catartica Edizioni, 2024), libri che, attraverso le loro storie, diventano un atto di opposizione alla propaganda bellica.

Non possiamo dimenticare il contributo di Bob Dylan, premio Nobel per la Letteratura nel 2016, figura centrale nella musica di protesta americana, che con brani come 
Masters of War si oppose alla guerra del Vietnam. E infine il movimento punk, con gruppi come Crass, The Exploited e The Clash, ha fatto della protesta musicale, culturale e politica una forma di rifiuto deciso della guerra e del militarismo. Già a partire dagli anni 70, con il motto “Fight War, Not Wars” dei Crass, il movimento punk ha manifestato una posizione pacifista intransigente, opponendosi a tutte le guerre senza distinzioni. Negli anni 80, il punk si è schierato contro la militarizzazione, sostenendo campagne antimilitariste e denunciando il rischio di trasformare l’Europa in un campo di battaglia tra superpotenze, con formazioni come The Exploited (con il brano Let’s Start a War… Said Maggie One Day) e Crass (con How Does It Feel to Be the Mother of a Thousand Deaths?).

Oggi, come ieri, la cultura indipendente e non allineata deve saper trovare il suo linguaggio per opporsi a chi controlla media e comunicazione e cerca di diffondere una nuova retorica intrisa di odio e violenza e maschera ipocritamente gli interessi che ruotano attorno alla logica del riarmo e della guerra. 

(Redazione)

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