Header Ads

test

Arte, lingua e comunità: ne parliamo con Anna Tea Salis


In un tempo in cui la realtà sembra rincorrere distopie sempre più inquietanti, 
Emme, Effe e P in seconda di Anna Tea Salis prova a ribaltare la prospettiva: non una fuga nel futuro, ma un ritorno consapevole alle radici, per immaginare un mondo nuovo.
Più che un’utopia nel senso classico, il romanzo di Anna Tea Salis immagina un futuro alternativo che, pur nella sua idealizzazione, non rinuncia a radicarsi nei conflitti e nelle contraddizioni del presente. Il libro – poetico, visionario e profondamente umano – intreccia ideali artistici e riflessioni sociali, disegnando un possibile domani dove l’arte, la lingua e la comunità diventano leve di rigenerazione.
In questa intervista, l’autrice ci accompagna nel cuore del suo immaginario: un universo narrativo in cui la famiglia si ridefinisce come comunità affettiva, l’arte diventa atto sovversivo e la lingua madre si riscatta come strumento di risveglio collettivo. Una conversazione che parte dalla letteratura, ma si allarga fino a toccare le questioni più urgenti del nostro presente.

1) Emme, Effe e P in seconda è ambientato in un futuro utopico, ma affonda le radici nel nostro presente. Che tipo di mondo immagini in un futuro ideale?


Credo che i grandi cambiamenti nascano sempre da un lungo processo di incorporazione del passato, ossia dal modo in cui interiorizziamo fisicamente, nel presente, le nostre radici, influenzando azioni, pensieri e comportamenti. Il mio è un approccio ispirato soprattutto all’antropologia. Il presente è una fonte di trasformazioni che, secondo me, porteranno a una nuova consapevolezza di cooperazione e mutuo soccorso. Ma è un processo lungo, ed è per questo che lo immagino in un prossimo futuro.

2) Il romanzo racconta i limiti culturali, sociali e politici del nostro tempo, ma evolve in un’epoca di rigenerazione. L’arte, in particolare, appare come leva del cambiamento. Il progetto artistico diventa quasi un manifesto politico. Pensi possa accadere anche nella realtà?

L’arte, come diceva lo stesso Marc Augé, è una via di liberazione, pronta a intervenire sull’essenza degli individui. L’arte contemporanea si interroga sulle distinzioni fra generi, sull’incorporeità, sul rapporto tra corpo e mente, attraverso la potenza della pratica creativa. L’arte ci invita a tenere gli occhi aperti: è un rito prolungato e deliberatamente sovversivo. Ed è attraverso il processo creativo che si trova chiarezza nelle relazioni sociali e umane, nella filiazione, senza falsi ingannatori né illusioni prodotte dalla società.

3) Quanto c’è del tuo vissuto nei gesti e nelle scelte dei protagonisti?

Diciamo che i personaggi riflettono molto le mie vicende personali. È attraverso il percorso di crescita condiviso con il mio compagno e mio figlio che ho tratto la profonda connessione con i caratteri di Emme, Effe e P in seconda, che sono anche un espediente narrativo per proiettare la storia nel futuro. L’intento non è di dispensare una ricetta su “come vivere felici”, ma di aiutare le persone a riconoscersi negli stati d’animo e nelle vicissitudini dei protagonisti, uno dei poteri dei libri.

4) Il doppio piano narrativo – tra presente e futuro – sembra uno strumento per criticare i modelli sociali tradizionali. In particolare, la famiglia viene descritta non come struttura rigida, ma come comunità affettiva. È una proposta alternativa o una rottura con ciò che la famiglia è stata finora?

Credo di sì, e penso che nella domanda ci sia già la risposta: l’idea di comunità affettiva è molto bella. Tra le visioni che si possono abbracciare c’è anche quella della “Co-umanità”, un concetto che punta alla costruzione di un percorso di aiuto reciproco e di una società egualitaria, fondata sul rispetto dei diritti umani e collettivi.

5) Di recente, Papa Leone XIV ha definito la famiglia “società piccola ma vera”, fondata sull’unione tra uomo e donna, legando ad essa la tutela della dignità umana. Che effetto ti hanno fatto queste parole, in relazione ai temi del tuo romanzo?

Direi che contrasta totalmente dall’ideale di famiglia a cui mi riferisco. Direi che contrasta totalmente con l’ideale di famiglia a cui mi riferisco. Trovo queste parole offensive nei confronti di molte famiglie aperte e non binarie, che fanno grandi sacrifici e cercano di educare al meglio i propri figli. Papa Leone XIV è purtroppo il riflesso di pregiudizi e stereotipi ancora profondamente radicati nella società: invece di promuovere l’amore come veicolo di affiliazione tra le persone, finisce per alimentare divisioni e diffidenze.

6) Hai inserito nel libro due citazioni di Antonio Gramsci che fungono da veri pilastri teorici. Che ruolo ha avuto il suo pensiero nella costruzione dell’identità culturale e politica del tuo romanzo?

A volte immagino Gramsci ai nostri giorni e mi chiedo cosa avrebbe scritto. Parlava di partecipazione – “vivere significa partecipare” – e ha riflettuto sul concetto di indifferenza con una lucidità che resta attuale.
La partecipazione attiva è ciò che ci definisce come persone. L’essere umano, nella sua dimensione culturale, esiste in relazione con gli altri, e questa relazione dà senso alla sua posizione sociale e individuale. “Il potere”, invece, mina questo rapporto, alimentando disuguaglianze e forme di sottomissione. Le parole di Gramsci aiutano a leggere questa dinamica e a riconoscerne i rischi.
Solo attraverso il riconoscimento di diritti l’individuo può essere davvero libero.

7) Nel libro si parla di un “risorgimento linguistico” e di identità collettiva. Quanto è importante, secondo te, il legame tra lingua, cultura e partecipazione attiva nei processi di trasformazione sociale?

Nella lingua ci identifichiamo come persone attraverso un processo storico in cui la stessa lingua subisce profonde trasformazioni.
La lingua è una parte essenziale della nostra identità: è un’eredità culturale che si trasforma nel tempo e ci definisce come individui e come comunità.
Sono cresciuta negli anni Ottanta, quando parlare in sardo era spesso visto come un segno d’ignoranza. Era un tabù. Ho perso presto i miei nonni e con loro la possibilità di apprendere quella trasmissione orale così preziosa. Ancora oggi avverto un vuoto, come se mi fosse stato sottratto un tassello fondamentale di me stessa.
Non rinnego l’italiano, che è parte della mia formazione e del mio modo di esprimermi. Ma approfondire le ricchezze culturali della Sardegna – dai modi di dire alla musica, intesa come rappresentazione viva di una comunità storica – mi ha aiutato a comprendere le fratture di un popolo, la distanza dalle proprie radici. E sono proprio le radici a dare forza e direzione.
Nel romanzo, questo percorso di emancipazione si traduce in un risveglio collettivo: un processo che porta alla consapevolezza, alla riscoperta di sé come comunità unita e solidale.


Nessun commento