Bakis Beks assolto, ma la cultura hip hop resta sotto accusa
Cinque anni dopo l’inizio di una vicenda surreale, il 25 giugno si è chiuso il processo contro il rapper nuorese Bakis Beks con un verdetto che suona più come un paradosso che come una sentenza di giustizia: assolto lui, l’artista, “perché il fatto non sussiste”; condannati – seppur con pena sospesa – tre giovani spettatori, rei di aver cantato e alzato il dito medio seguendo la metrica del ritornello del brano sotto accusa.
Siamo di fronte a un caso che va ben oltre la cronaca giudiziaria. È lo specchio fedele di un contesto sociale in cui la cultura hip hop, con il rap come sua espressione centrale, continua a essere percepita come un corpo estraneo, disturbante, da sorvegliare e contenere. E se l’artista può trovare (a fatica) riconoscimento del proprio diritto di espressione, il pubblico resta senza scudo, colpevole di aver partecipato.
Bakis Beks, nome d’arte di Bachisio Marras, era stato accusato di oltraggio per aver espresso, durante un’esibizione, frasi considerate offensive verso gli agenti di polizia presenti. Ma l’accusa non ha retto: nessuna prova audio, testimonianze contraddittorie e – soprattutto – la chiara natura politica e musicale delle parole pronunciate. Il suo linguaggio, come ha sottolineato la difesa, era parte di un discorso più ampio: una critica all’occupazione militare della Sardegna, un tema ricorrente nella sua scrittura e nella tradizione di lotta dell’isola.
Eppure, per gli spettatori che hanno partecipato a quella serata, il giudizio è stato diverso. La loro colpa? Aver fatto proprio un messaggio, averlo mimato e cantato.
È qui che si manifesta tutta la contraddizione culturale e l’ipocrisia di una società che accoglie – con entusiasmo – la narrazione del “rapper ribelle”, ma solo se è un fenomeno caricaturale, costruito appositamente da una cultura mainstream che insegue le mode del momento. Mentre ciò che continua a non essere compreso, e che si vuole oscurare, è la critica sociale che la cultura hip hop da sempre esprime. C’è un fastidio radicato per chi alza la voce, soprattutto quando questa voce può diventare un sentire collettivo. Il palco può ancora, a fatica, essere uno spazio protetto; la piazza – e ora anche stare sotto un palco – può diventare pericoloso e oggetto di criminalizzazione.
Questo processo, al netto della sua assurdità giuridica, pone sul tavolo una questione urgente: può la cultura esprimere liberamente la critica politica e sociale? Oppure continuerà a essere ridotta a folklore, puro intrattenimento, o veicolo di consenso da esibire in festival e talent show, ma da reprimere quando si fa azione, partecipazione e dissenso?
Il rap, come linguaggio di rottura, nasce per denunciare, per sfidare convenzioni e mettere in discussione lo status quo. E lo fa usando parole dure, simboli espliciti, gesti provocatori. Quello che è accaduto a Nuoro ci ricorda che la repressione non colpisce solo chi si esprime attraverso l’arte, ma anche chi ascolta, chi partecipa, chi si riconosce in un messaggio di rottura. È un campanello d’allarme per chi crede nella libertà di espressione non come principio astratto, ma come pratica collettiva.
La cultura hip hop è sempre stata voce di chi non ha voce. In Sardegna – terra colonizzata, terra di servitù militari – non poteva che attecchire nella sua forma più diretta e politica. E noi tutte e tutti vogliamo sentirci liberi di manifestare il nostro dissenso.
Questa si chiama libertà di espressione.
Questo processo, al netto della sua assurdità giuridica, pone sul tavolo una questione urgente: può la cultura esprimere liberamente la critica politica e sociale? Oppure continuerà a essere ridotta a folklore, puro intrattenimento, o veicolo di consenso da esibire in festival e talent show, ma da reprimere quando si fa azione, partecipazione e dissenso?
Il rap, come linguaggio di rottura, nasce per denunciare, per sfidare convenzioni e mettere in discussione lo status quo. E lo fa usando parole dure, simboli espliciti, gesti provocatori. Quello che è accaduto a Nuoro ci ricorda che la repressione non colpisce solo chi si esprime attraverso l’arte, ma anche chi ascolta, chi partecipa, chi si riconosce in un messaggio di rottura. È un campanello d’allarme per chi crede nella libertà di espressione non come principio astratto, ma come pratica collettiva.
La cultura hip hop è sempre stata voce di chi non ha voce. In Sardegna – terra colonizzata, terra di servitù militari – non poteva che attecchire nella sua forma più diretta e politica. E noi tutte e tutti vogliamo sentirci liberi di manifestare il nostro dissenso.
Questa si chiama libertà di espressione.
(La redazione)
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