L'editor: perché averne uno
Interlinea
La figura dell’editor nasce in epoca relativamente moderna. Si sente dire spesso che gli scrittori del passato non ne avevano bisogno. In realtà questo non è vero.
Come dice Giulio Mozzi: «Sfido che il conte Manzoni, che aveva ricevuto una splendida formazione, viveva in un ambiente di intellettuali di altissimo livello, non avesse bisogno di un editor. E comunque non appena ha pubblicato, gli sono saltati addosso. E lui si è messo lì, umile umile, e per tredici anni ha riveduto il testo, facendo diventare il suo romanzo molto più bello, usando i consigli soprattutto lessicali di un sacco di amici e conoscenti.»
E poi quanti romanzi venivano pubblicati nell’Ottocento? Decisamente meno rispetto a oggi, la platea dei lettori era molto meno vasta a causa del grado di scolarizzazione e di altri fattori.
La società globalizzata di oggi ci mette continuamente a contato con le storie. Il libro non è l’unico veicolo che ci intrattiene (e ci educa) attraverso la narrazione. I film, le serie tv, i videogiochi e il fenomeno dei podcast esploso negli ultimi anni. Siamo sempre in contatto con le storie, di finzione e non.
Nel caos generato dal mercato informativo e dell’intrattenimento (e anche nel caos di un manoscritto) spetta all’editor mettere ordine in una storia che è essa stessa frutto di ispirazioni da media diversi. Difatti la sua formazione non può fermarsi al solo prodotto libro, in quanto lo scrittore stesso non è un fruitore esclusivamente di libri.
In ogni caso, nessun testo nasce perfetto, per quanto l’autore possa essere geniale o navigato. La sua opera fa parte di lui, è un’estensione della sua psiche e risulta molto difficile prendere le distanze dall’opera che è stata creata con tanta fatica e dedizione.
L’autore è emotivamente coinvolto nel processo di creazione del romanzo e non riesce ad accorgersi di ciò che non funziona o di una frase o di un capitolo fuori posto perché lui ama ogni singola battuta del suo dattiloscritto.
Non solo. Quando si scrive si cerca di mettere nero su bianco ciò che si ha dentro la testa ma non sempre si riesce perché nel passaggio dall’immaginazione alla stesura si possono dare per scontate molte cose che si conoscono o dare troppe informazioni per paura di non essere capiti. O anche dare false informazioni che in realtà non si conoscono. L’editor (che ricordiamo essere il primo lettore di uno scritto e una sorta di “lettore collettivo”) si renderà conto se a metà romanzo il personaggio principale ha un braccio rotto e l’autore non ha spiegato il perché, si renderà conto se in una scena di sesso l’autore si sofferma troppo sui dettagli degli infissi o sul rubinetto che perdeva in quella lontana estate del ’54, si renderà conto se in una storia ambientata in Islanda l’autore non c’è mai stato e si rischia di scrivere stupidaggini. E si renderà conto anche delle ripetizioni, dei congiuntivi sbagliati, della punteggiatura inesistente o a casaccio. Tutte cose che il cugino insegnante di scienze appassionato di Asimov non può fare. Non basta leggere tanti libri e avere la passione per la lettura per sapere come funzionano, purtroppo.
La stessa Virginia Woolf ammetteva che tutte le sue informazioni sui fari fossero sballate e gli occhi di Madame Bovary cambiano colore ogni due per tre lungo tutto il libro, senza preavviso. Questo per dire che anche i più grandi sbagliano.
Stephen King ha all’attivo 58 romanzi, più di 200 racconti, una saga divisa in 8 libri, saggi, poesie, sceneggiature. E ha un editor.
Voglio chiudere con una citazione di Paolo Giordano: «Ogni scrittore ha bisogno di un editor. Ne ha bisogno perché l’obiettività è la prima delle virtù a scomparire quando ci si trova equidistanti fra le sponde di un testo; perché ci vuole qualcuno che lo costringa (o, per meglio dire, lo incoraggi con fermezza) a fare ciò che il più delle volte egli stesso sa di dover fare; perché contenere dentro di sé un libro intero è faticoso, si rischia di esplodere; e perché ci si sente spesso soli nel mestiere improbo dello scrivere.»
Come dice Giulio Mozzi: «Sfido che il conte Manzoni, che aveva ricevuto una splendida formazione, viveva in un ambiente di intellettuali di altissimo livello, non avesse bisogno di un editor. E comunque non appena ha pubblicato, gli sono saltati addosso. E lui si è messo lì, umile umile, e per tredici anni ha riveduto il testo, facendo diventare il suo romanzo molto più bello, usando i consigli soprattutto lessicali di un sacco di amici e conoscenti.»
E poi quanti romanzi venivano pubblicati nell’Ottocento? Decisamente meno rispetto a oggi, la platea dei lettori era molto meno vasta a causa del grado di scolarizzazione e di altri fattori.
La società globalizzata di oggi ci mette continuamente a contato con le storie. Il libro non è l’unico veicolo che ci intrattiene (e ci educa) attraverso la narrazione. I film, le serie tv, i videogiochi e il fenomeno dei podcast esploso negli ultimi anni. Siamo sempre in contatto con le storie, di finzione e non.
Nel caos generato dal mercato informativo e dell’intrattenimento (e anche nel caos di un manoscritto) spetta all’editor mettere ordine in una storia che è essa stessa frutto di ispirazioni da media diversi. Difatti la sua formazione non può fermarsi al solo prodotto libro, in quanto lo scrittore stesso non è un fruitore esclusivamente di libri.
In ogni caso, nessun testo nasce perfetto, per quanto l’autore possa essere geniale o navigato. La sua opera fa parte di lui, è un’estensione della sua psiche e risulta molto difficile prendere le distanze dall’opera che è stata creata con tanta fatica e dedizione.
L’autore è emotivamente coinvolto nel processo di creazione del romanzo e non riesce ad accorgersi di ciò che non funziona o di una frase o di un capitolo fuori posto perché lui ama ogni singola battuta del suo dattiloscritto.
Non solo. Quando si scrive si cerca di mettere nero su bianco ciò che si ha dentro la testa ma non sempre si riesce perché nel passaggio dall’immaginazione alla stesura si possono dare per scontate molte cose che si conoscono o dare troppe informazioni per paura di non essere capiti. O anche dare false informazioni che in realtà non si conoscono. L’editor (che ricordiamo essere il primo lettore di uno scritto e una sorta di “lettore collettivo”) si renderà conto se a metà romanzo il personaggio principale ha un braccio rotto e l’autore non ha spiegato il perché, si renderà conto se in una scena di sesso l’autore si sofferma troppo sui dettagli degli infissi o sul rubinetto che perdeva in quella lontana estate del ’54, si renderà conto se in una storia ambientata in Islanda l’autore non c’è mai stato e si rischia di scrivere stupidaggini. E si renderà conto anche delle ripetizioni, dei congiuntivi sbagliati, della punteggiatura inesistente o a casaccio. Tutte cose che il cugino insegnante di scienze appassionato di Asimov non può fare. Non basta leggere tanti libri e avere la passione per la lettura per sapere come funzionano, purtroppo.
La stessa Virginia Woolf ammetteva che tutte le sue informazioni sui fari fossero sballate e gli occhi di Madame Bovary cambiano colore ogni due per tre lungo tutto il libro, senza preavviso. Questo per dire che anche i più grandi sbagliano.
Stephen King ha all’attivo 58 romanzi, più di 200 racconti, una saga divisa in 8 libri, saggi, poesie, sceneggiature. E ha un editor.
Voglio chiudere con una citazione di Paolo Giordano: «Ogni scrittore ha bisogno di un editor. Ne ha bisogno perché l’obiettività è la prima delle virtù a scomparire quando ci si trova equidistanti fra le sponde di un testo; perché ci vuole qualcuno che lo costringa (o, per meglio dire, lo incoraggi con fermezza) a fare ciò che il più delle volte egli stesso sa di dover fare; perché contenere dentro di sé un libro intero è faticoso, si rischia di esplodere; e perché ci si sente spesso soli nel mestiere improbo dello scrivere.»
(Giuseppe Brundu)
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