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Ponti non muri: “Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa


La recensione che segue, realizzata da Ilaria Moretti e originariamente apparsa nel 2011 sul numero 7 della Rivista Ponti non Muri, patrocinata dalla Fondazione Banco di Sardegna, è dedicata al libro “Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa. La riproponiamo oggi grazie alla collaborazione tra indielibri e l’Associazione Ponti Muri. Questa iniziativa è motivata dal comune interesse per la cultura palestinese e dalla solidarietà verso il popolo palestinese, che da decenni vive sotto l’occupazione israeliana.

Questa collaborazione emerge in un periodo drammatico: i bombardamenti israeliani su Gaza continuano incessantemente, colpendo soprattutto i civili. Ospedali, case e infrastrutture sono state distrutte, lasciando Gaza in uno stato di devastazione totale, con oltre 40.000 persone morte nel genocidio in atto.

In questo scenario, ci uniamo alla solidarietà verso i palestinesi, chiedendo la fine del colonialismo e dell'aggressione di Israele contro i civili palestinesi, e un immediato cessate il fuoco. Sosteniamo la richiesta del riconoscimento da parte dell’Italia dello Stato di Palestina, per cui in questi giorni sono state consegnate quasi 80.000 firme certificate al Senato della Repubblica, un gesto concreto per sostenere il diritto alla pace, alla giustizia e all'autodeterminazione dei popoli.

Indielibri contribuisce riproponendo questa recensione di un libro che narra la storia della Palestina attraverso le vicende di una famiglia, simbolo delle famiglie palestinesi. Il libro copre quasi sessant’anni di storia, dalla nascita dello Stato di Israele all’occupazione della Palestina, evidenziando la tragedia dell’esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, e la vita nei campi profughi.



“Ogni mattina a Jenin”

Amal avrebbe voluto guardare meglio negli occhi del soldato, ma la bocca del fucile automatico contro la fronte non glielo permetteva. Era sufficientemente vicina per vedere che portava le lenti a contatto. Si immaginò il soldato curvo su uno specchio che si infilava le lenti negli occhi prima di vestirsi e andare a uccidere. Che strano, pensò, quello che ti viene in mente tra la vita e la morte.

Si domandò se i soldati si sarebbero dichiarati pentiti dell’uccisione “accidentale” di una cittadina americana…

Una solitaria goccia di sudore scese lungo il volto del soldato. L’uomo batté le palpebre, più volte. Lo sguardo fisso di Amal lo metteva a disagio. Aveva già ucciso altre volte, ma mai guardando la vittima negli occhi. Amal lo capì, e avvertì la sua inquietudine in mezzo alla carneficina che li circondava. Che strano, pensò di nuovo, non ho paura di morire. Forse perché sapeva, dal modo in cui il soldato aveva battuto le palpebre, che si sarebbe salvata.

Chiuse gli occhi, rinata, il metallo freddo ancora contro la fronte. I ricordi la riportarono indietro, e ancora indietro, a una patria che non aveva mai conosciuto…

Pensavo che “Ogni mattina a Jenin” fosse un libro come tanti: la mia abituale scorribanda nel territorio proibito e personale degli autori che mi trovo davanti.

O almeno… pensavo di farlo! Ma avevo fatto male i miei conti.

Ogni singola parola di questo libro di Susan Abulhawa ha squarciato e scosso la mia coscienza svegliandomi dal torpore di ignoranza e colpevole ingenuità in cui versavo irreparabilmente.

Ed eccomi lì con Amal… bambina… adolescente… donna… che cresce scandendo le tappe di un atroce destino in un susseguirsi esponenziale di drammi, tragedie e infelicità tratteggiati dall’autrice a pennellate nitide e precise i cui contorni si perdono man mano che le lacrime ti soffocano gli occhi (che tu lo voglia o no!).

Il tutto è illuminato dalla dignitosa ironia e dall’abile delicatezza espressiva che offrono scorci di vita quotidiana, vissuta, partecipata, amata. Il dolore che risveglia i cuori più sordi e insensibili si veste delle gioie che l’esistenza ci dona attraverso capitoli che come megafoni esprimono emozioni che nascono dalle viscere più profonde.

Se pensate che le guerre siano finite, passate, lontane…svegliatevi dal sonno. Amal passa giorni nascosta in una buca insieme all’amichetta Huda con l’unica compagnia dei loro escrementi e di una neonata morta tra le braccia; subisce umiliazioni; si becca una pallottola nel fianco; vive con una madre ammutolita dal niente, dal tutto… dal troppo. Amal non sa abbracciare la sua bambina, non può farlo perché questo le scalderebbe il cuore, aprirebbe ferite ataviche e insanabili, suscitando il ricordo dolceamaro di un amore sbocciato e spezzato quando era ancora tenero virgulto. E tutto ciò le accade esattamente mentre state leggendo, ogni giorno, “ogni oggi”. Non anni fa, non avantieri, non ieri! Impossibile? Vero.

Lo sapevate che Amal si pronuncia con la “a” lunga? Il papà le spiega che la “a” lunga evoca speranza, anzi di più, tutte le speranze; l’attesa di un mondo in cui i padri profumati di pipa con tabacco di miele e mela possano di nuovo leggere libri e poesie, pensieri e valori ai figli coccolandoli alla luce sbiadita dell’alba; l’aroma di un popolo che raccoglieva fichi e olive e faceva promesse sulla riva di un mare mai visto; il sapore del freddo che serpeggiava nei pori combattuto dal calore dei corpi allacciati e di una coperta condivisa; la certezza di tenersi per mano, qualunque cosa accada; il senso profondo di appartenenza… alla patria, alla terra, alla famiglia; l’immagine imposta e riproposta dai media che sconvolgono il tuo cuore sbattendogli in faccia dieci, cento, mille volte la fotografia di chi hai amato con la pancia spalancata e spappolata. Il ripetersi infinito del “tu-tu” sordo del telefono che squilla a vuoto lasciandoti nell’incertezza e nell’ansia più dilaniante e cupa.

E poi le musiche, l’armonia, le note all’unisono dei matrimoni, delle benedizioni delle nascite che con straordinaria e indefinibile tenerezza ti fanno socchiudere la bocca in un sorriso. In nome dell’amore!

Questo libro vi condurrà dolcemente nei meandri dell’esistenza di una donna, della sua famiglia e del suo popolo, aprendovi la mente ad un mondo oggi troppo sconosciuto.

Io ora lo so, ricordatelo anche voi… la “a” di Amal va pronunciata lunga, come le speranze. 

(Ilaria Moretti)

 “Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa, Milano 2011, pp. 400


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