
Il 17 ottobre 1915 nasceva a New York Arthur Miller, uno dei più grandi drammaturghi del Novecento. Figlio di immigrati ebrei di origine polacca, visse nell’infanzia la rovina economica della sua famiglia durante la Grande Depressione: un trauma che segnò profondamente la sua visione del mondo e lasciò un’impronta indelebile nelle sue opere. Dopo anni di lavori umili, riuscì a iscriversi all’Università del Michigan, dove scoprì la sua vocazione teatrale.
Il suo primo successo arrivò con Erano tutti miei figli (1947), ma fu Morte di un commesso viaggiatore (1949) a consacrarlo come voce universale del dramma moderno. In Willy Loman, l’uomo qualunque schiacciato dal mito del successo, Miller scolpì la tragedia del sogno americano infranto, guadagnandosi il Premio Pulitzer e un posto nella storia del teatro. Qualche anno dopo, con Il crogiuolo (1953), mise in scena i processi alle streghe di Salem per raccontare, in realtà, la persecuzione politica del maccartismo. Il coraggio di quell’allegoria gli costò l’accusa di oltraggio al Congresso per essersi rifiutato di denunciare colleghi sospettati di simpatie comuniste, ma rafforzò la sua immagine di intellettuale libero e coerente.
La sua vita privata fu segnata anche da una relazione intensa e tormentata con Marilyn Monroe, per la quale scrisse The Misfits. Nelle sue opere, Miller continuò a interrogare la coscienza morale dell’uomo moderno, esplorando la fragilità delle relazioni, la colpa, la responsabilità e il potere corrosivo dell’illusione.
Morì nel 2005, dopo aver ricevuto i massimi riconoscimenti internazionali, ma la sua eredità resta viva. Rileggere Miller oggi significa tornare a un teatro che non consola, ma provoca; che chiede al pubblico di scegliere tra verità e conformismo. Il suo sguardo, nato tra le macerie della Grande Depressione, resta un richiamo potente a guardare in faccia le nostre contraddizioni, a non smettere di interrogarci su chi siamo davvero.
(Salvatore Palita)






