
Nella Firenze del 1913, Vasco Pratolini è un bambino di quartiere, figlio di un impiegato e di una sarta, cresciuto tra il profumo acre dei vicoli e il rumore delle botteghe. La sua infanzia è breve e interrotta dalla morte precoce della madre, evento che segnerà per sempre la sua sensibilità. Affidato ai nonni materni, Pratolini cresce con la consapevolezza che la vita, per essere raccontata, va prima attraversata. Le sue pagine future nasceranno proprio da quel contatto diretto con il mondo minuto, fatto di sguardi, mestieri, amicizie e povertà dignitosa.
Da giovane, l’istruzione scolastica non lo attrae: preferisce imparare dalla strada, dalla vita quotidiana, dalle parole scambiate nei caffè e nelle osterie. Ma nel cuore porta una curiosità inquieta e una fame di lettura che lo accompagna per sempre. Scopre Dante e Manzoni, ama Dickens e Jack London, e trova in Federigo Tozzi un compagno d’anima. La sua formazione non avviene nelle aule, ma nei libri letti di nascosto e nella pratica costante dell’osservazione. È questa tensione tra esperienza e parola che farà di lui uno scrittore unico, capace di restituire letterariamente la voce degli umili senza mai tradirne l’autenticità.
Negli anni Trenta, a Firenze, Pratolini si avvicina all’ambiente artistico che ruota attorno al pittore Ottone Rosai. È Rosai a introdurlo a un mondo di discussioni e riviste, di poeti e scrittori che cercano nuove forme espressive per un’Italia in fermento. Con Alfonso Gatto fonda la rivista Campo di Marte, laboratorio di idee e riflessioni che anticipa, per molti versi, la sensibilità neorealista del dopoguerra. Mentre il fascismo impone la sua ombra, Pratolini inizia a scrivere racconti che parlano di una realtà nascosta: la Firenze popolare, con le sue strade, i suoi lavoratori, le sue donne.
La sua narrativa nasce da un’esigenza morale prima ancora che estetica. In Cronache di poveri amanti del 1947, egli dà vita a una coralità di voci che si intrecciano nei vicoli di via del Corno, un microcosmo di passioni e miserie che diventa immagine di un’intera epoca. Qui l’amore, la politica, la povertà e la dignità convivono nella stessa lingua piana, senza artifici, ma con una musicalità che sa di vita vera. Nello stesso anno, con Cronaca familiare, Pratolini trasforma il dolore in memoria. Il rapporto con il fratello, la distanza e la perdita diventano materia di una confessione limpida, priva di retorica, che scava nelle pieghe più intime dell’affetto umano. Pochi romanzi del Novecento italiano hanno saputo dire con tanta misura la sofferenza della separazione e la nostalgia di ciò che non si è potuto vivere.
Negli anni successivi, lo sguardo di Pratolini si amplia. Con la trilogia Una storia italiana – che comprende Metello, Lo scialo e Allegoria e derisione – egli racconta la trasformazione sociale e morale del Paese: la nascita della coscienza operaia, l’emergere delle contraddizioni borghesi, l’intreccio tra storia privata e storia collettiva. In Metello, forse il suo romanzo più celebre, la vita di un giovane muratore diventa simbolo della crescita civile e politica di una generazione. L’epica del lavoro e della solidarietà si intreccia alla scoperta dell’amore e della responsabilità: tutto ciò che per Pratolini costituisce la sostanza stessa dell’essere umano.
Durante la guerra, lo scrittore partecipa attivamente alla Resistenza, assumendo il nome di battaglia Rodolfo Casati. Anche in quell’esperienza resta fedele alla sua idea di letteratura: un mezzo per comprendere la realtà, non per evadere da essa. Dopo il 1945, Pratolini si avvicina al cinema, collaborando con registi come Rossellini e Visconti, contribuendo alla nascita del linguaggio neorealista sullo schermo. Ma la sua voce rimane quella dello scrittore che narra “dal basso”, che non teme di sporcarsi con la vita per poi trasfigurarla in racconto.
Vasco Pratolini muore a Roma nel gennaio del 1991. Aveva attraversato quasi tutto il Novecento, restando fedele a una sola idea: che la letteratura è un atto di fedeltà verso l’uomo comune, verso le sue paure, le sue gioie, le sue sconfitte. I suoi romanzi continuano a parlarci perché sono scritti con quella lingua sobria e luminosa che nasce solo dall’esperienza diretta. In lui, la cronaca si fa poesia e la vita quotidiana diventa epica.
Firenze, oggi, conserva ancora le tracce della sua voce nei vicoli e nei ponti, nei nomi delle strade che attraversano i quartieri popolari. E ogni 19 ottobre, nel giorno della sua nascita, sembra di poterlo incontrare ancora – un uomo semplice che cammina tra la gente, attento a tutto ciò che accade, pronto a trasformare in racconto anche il più piccolo gesto umano.
(Salvatore Palita)






