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Nasce "Filosofia de logu". Ne parliamo con Cristiano Sabino


È nato un gruppo di lavoro e di ricerca multidisciplinare che ha preso il nome di Filosofia de logu. Ne fanno parte studiosi e attivisti, dentro e fuori dall’accademia, provenienti dall’ambito delle scienze umane, sociali e filosofiche, il cui intento è quello di decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna. 
Il gruppo dispone di un suo sito (filosofiadelogu.eu) e annuncia la pubblicazione di una raccolta collettiva di saggi, eventi in rete e incontri sul territorio.
Ne parliamo con Cristiano Sabino, docente e saggista, tra i promotori del progetto.

1)  Come nasce il progetto “Filosofia de Logu” e cosa significa voler “decolonizzazione il pensiero e la ricerca in Sardegna”?

Il progetto nasce dalle discussioni di un gruppo di ricercatori e attivisti vogliosi di mettere in discussione la narrazione (dominante nel mondo della cultura ufficiale in Sardegna) basata sulla negazione della soggettività autonoma dei sardi e delle sarde e sulla riduzione a posizione subalterna di tutta la nostra produzione intellettuale, culturale e politica. Insomma Filosofia de Logu esiste per decostruire il senso comune, (con a corredo l’intreccio di luoghi comuni, cliché, miti e mitologie) che la cultura ufficiale ha elaborato nel corso del tempo e reso verità assoluta. La colonizzazione non è soltanto un dato economico di rapporto diseguale tra due soggetti di scambio. Esiste da sempre il pensiero della colonizzazione che giustifica e supporta una determinata situazione di ingiustizia e diseguaglianza. Per esempio la prima colonizzazione del sud America è stata giustificata dagli intellettuali del tempo come il giusto prezzo per la conversione di popolazioni pagane. Successivamente la spartizione geometrica dell’Africa ha introdotto il grimaldello della “necessaria modernizzazione” di un intero continente altrimenti votato alla “barbarie” e alle “guerre interetniche”. Sono sempre gli intellettuali che preparano le armi concettuali indispensabili a costruire il senso comune su cui si costruisce e si giustifica la subalternità economica, sociale e politica di un territorio, di un popolo, di una civiltà o anche di un intero continente. La Sardegna non fa eccezione. Dalla sconfitta della “Sarda Rivolutzione” è emersa la posizione degli intellettuali favorevoli alla subalternità della Sardegna, a partire dallo storico Giuseppe Manno. Da quel momento in poi l’alta cultura ufficiale ha parlato la lingua dei vincitori. Non hanno fatto eccezione gli intellettuali di impostazione marxista che si sono adeguati ad una lettura favorevole alla “modernizzazione” a qualunque prezzo, partendo dal presupposto, ideologico e non critico, che “modernizzare” vuol dire sempre “emancipare”, il che è appunto un principio schiettamente coloniale. 

2)  Avete annunciato la pubblicazione di saggi e la promozione di incontri in rete e sul territorio. Quali saranno le prime questioni che affronterete. Organizzerete seminari, dibattiti e momenti di informazione culturale?

Il 4 giugno organizzeremo una prima forma di presentazione da tenersi on line, ma ovviamente appena sarà possibile si terranno anche degli incontri in presenza. A settembre contiamo di uscire con una collettanea curata dal nucleo promotore, sui diversi aspetti che riguardano le specifiche competenze di ciascuno di noi. Sarà ovviamente anche quella una ghiotta occasione per presentare il volume in Sardegna e anche fuori della Sardegna e aprire la discussione con tanti ricercatori e ricercatrici che magari oggi neppure conosciamo, ma che potrebbero essere interessati a diventare protagonisti di questo progetto. A proposito, la scrittura del manifesto è stato un percorso di elaborazione collettiva e di discussione profonda. Non c’è stato un unificatore o un maître à penser capace di tenere i buoi nel recinto. Questo perché anche la questione del metodo è di fondamentale importanza per sviluppare un pensiero fisiologicamente non subalterno. L’origine della subalternità economica, la storiografia che legge le vicende storiche dei sardi come marginali e decentrate rispetto ai grandi eventi significativi del passato, l’inserimento forzoso della Sardegna all’interno del calderone del “Meridione d’Italia”, il funzionamento di precisi dispositivi di comunicazione e di trasmissione della cultura come veicolo di subalternità intellettuale, la decostruzione di una concezione “metafisica” dello Stato come realtà al di fuori dal tempo e non soggetto a trasformazioni anche radicali, la riflessione sull’intersezione delle istanze legate all’autodeterminazione (del corpo, dei popoli, delle comunità, delle culture), la critica della “filosofia dell’insularità in Costituzione”, sono solo alcune delle discussioni che abbiamo sul piatto della discussione.

3)  Può la filosofia influenzare la politica nelle decisioni che riguardano l’insegnamento e la valorizzazione della lingua e della cultura sarda nelle scuole o in ambito istituzionale e amministrativo?

Filosofia vuol dire capacità di pensiero ed essere capaci di pensare significa non pensare per procura. Proprio sulla questione della lingua sarda agiscono dispositivi fortemente subalterni che inibiscono e pongono in scacco tutti i tentativi di restituire dignità e vitalità alla lingua sarda e alle lingue alloglotte parlate in Sardegna. Prendiamo le classiche domande ed obiezioni che spontaneamente saltano fuori quando qualcuno rimarca l’esigenza di rimettere in circolazione la lingua sarda: “quale sardo?”, “bisogna imparare l’inglese”, “ma allora i pugliesi dovrebbero parlare il pugliese”, “siamo italiani, parliamo l’italiano” e via dicendo. Se andiamo ad analizzare questa batteria di repliche hanno tutte un minimo comun denominatore ed è quello che noi chiamiamo il “pensiero solo”. Con questa espressione intendiamo un pensiero che si erge ad unico elemento di comprensione ed elaborazione di una realtà, come poteva essere il culto del Faraone nell’antico Egitto o il credo cristiano in epoca medievale. Il pensiero solo è più potente del “pensiero unico” di cui si parlava ad inizio anni Duemila, perché di fronte all’unicità del pensiero dominante è possibile il tirannicidio del pensiero o l’aperta ribellione in funzione anti autocratica. L’assolutismo e la dittatura (anche l’assolutismo e la dittatura del pensiero) lasciano sempre spazio alla ribellione e alla decostruzione. Il pensiero solo è invece una evoluzione pericolosa del pensiero unico, perché non prevede che al di fuori di esso esista nient’altro. Io posso essere di destra o di sinistra, posso essere credente o meno, posso essere cosmopolita o sovranista, liberista o socialista ma non posso mettere in discussione che la lingua italiana sia l’unica lingua veicolare presente in Sardegna. Il pensiero solo è il pensiero della subalternità trasversalmente condivisa da tutti gli orientamenti della cultura e della politica presenti in Sardegna e la questione della lingua è solo uno dei tanti esempi che possiamo fare e che di certo faremo. 

4)    Cosa significa per te fare filosofia?

Fare filosofia significa fare società e farla sapendo cosa si sta facendo. Non mi entusiasma la ricerca fine a se stessa e faccio mia una granitica convinzione di Gramsci che l’intellettuale deve sempre suscitare forze politiche e sociali, altrimenti fa il gioco di chi detiene le leve del comando e diventa una scimmia ammaestrata, un mercante di concetti asservito ai potenti. L’amore per il sapere non è e non può essere un amore disinteressato e scisso dalle esigenze vive della storia che abitiamo. La tendenza dell’intellettuale a distanziarsi dalle ferite del suo tempo è la dimostrazione che l’intelligenza da sola non basta, serve anche la passione civile. L’intelligenza e la ricerca senza passione civile producono mostri spesso peggiori del «sonno della ragione». In fondo il nostro è un tornare a Kant e alla sua concezione d’illuminismo. Per noi la filosofia è sempre legata al “logu”, anche quando appare astratta e distante dalla realtà tangibile. E deve essere finalizzata alla «fuoriuscita dallo stato di minorità». Insomma la filosofia – latamente concepita – o si impegna a debellare la subalternità o si riduce a mero esercizio retorico al servizio dell’arroganza del pensiero solo.

5)  La filosofia può essere alla portata di tutti, diventando uno strumento che aiuti le persone a comprendere la complessità del mondo contemporaneo e le trasformazioni sociali che le riguardano?

Se la filosofia non diventa “pop” allora fallisce nel suo compito. C’è un momento e un livello per tutto. Io sono contrario a svilire il pensiero abbassandolo al livello della polemica fugace del giorno per giorno. Ma sono anche contrario all’elitismo intellettuale che non muove un passo verso il popolo e concepisce chi lo fa come “rozzi divulgatori”. Dobbiamo renderci conto che l’interpretazione del mondo prevede anche una sua trasformazione e la trasformazione non la fanno gli intellettuali. La cultura non salva, non cura e non ripristina. Io sono contrario alla concezione secondo cui la cultura possiede di per sé una spinta salvifica e che basta essere colti per essere migliori o contribuire a migliorare le cose. Questa è una idea apparentemente romantica e positiva ma nei fatti profondamente classista e reazionaria. È l’idea di chi ha trovato una bella sistemazione personale in questa orrenda tragedia che chiamiamo società moderna e, per mettersi l’anima in pace, scrive ogni tanto due o tre articoletti moralistici su come si potrebbe cambiare il mondo se solo la massa di zoticoni egoisti seguisse i consigli del caro intellettuale progressista di turno. Sono questi approcci che bisogna contrastare, perché questo tipo di intellettuale posato, distaccato, moralista, si trasforma in un attimo in intellettuale organico all’autoritarismo e al dominio, appena esso intravede che altrimenti la sua comoda posizione di privilegio potrebbe sfumare.

6)  Hai già pubblicato due saggi a tema politico: “Compagno T” (Condaghes 2017) e “Falce e Pugnale” (Catartica Edizioni, 2019), realizzato in collaborazione con lo storico e saggista Omar Onnis. Stai lavorando a un nuovo libro. Vuoi parlarne? 

Il mio filone di ricerca è il rapporto tra i paradigmi della sinistra e la questione sarda. In realtà si tratta di un mancato abbraccio causa di una serie di comportamenti sclerotizzati sia nel campo delle prassi e delle analisi della sinistra (anche e soprattutto della sinistra di classe) e delle proposte del vasto mondo del sardismo e dell’indipendentismo. Ho scritto Compagno T. per mettere nero su bianco tutte le cattive abitudini del pensiero sulla Sardegna, del pensiero progressista e socialista in generale. L’ho fatto parlando ad un “compagno”, punzecchiando la sua falsa coscienza e disvelando le sue malizie e spesso riaprendo anche ferite e contraddizioni  della mia parte che storicamente è quella del pensiero e della prassi anticoloniale. Falce e Pugnale è un testo se vogliamo più umile perché si limita a storicizzare alcuni documenti prodotti dalla sinistra indipendentista (dagli anni Sessanta agli anni Duemila). Questo perché in Sardegna agisce una sorta di complesso di Penelope anche da parte di chi impiega categorie critiche e agisce nel campo della lotta alla colonizzazione. Mettere nero su bianco i fallimenti e le ferite non può che fare bene a chi verrà dopo perché, anche nella storia, sbagliando si impara.
Il mio nuovo progetto parlerò di Gramsci, perché a mio a parere per andare avanti è necessario tornare indietro, precisamente a 100 anni fa, quando Gramsci fece recapitare al V Congresso del Partito Sardo un appello firmato dall’Internazionale Contadina , ma palesemente scritto da lui. Quell’abbraccio non andò a buon fine e da quel momento sono iniziati i nostri problemi che dal Novecento stiamo ereditando oggi. Tutto il mio lavoro è un ricostruire le condizioni che permetteranno in futuro il realizzarsi di quell’abbraccio. 



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