
È curioso osservare come, negli ultimi anni, la parola sicurezza sia diventata il grimaldello di ogni decisione politica, e come questo diventi lo spunto su cui imbastire le azioni amministrative persino in contesti urbani medi o piccoli. Un modo semplice – e semplicistico – per dire di aver affrontato i problemi di una città che vede una parte della popolazione vivere nel disagio e interi quartieri socialmente marginali. Non c’è problema urbano che non venga ricondotto alla questione della sicurezza: degrado, vandalismo, criminalità. Tutto può essere risolto, sembra, con un massiccio impiego di telecamere.
Un anno fa, erano state le scritte sui muri di Sassari (peraltro mai rimosse dal sindaco e dalla sua amministrazione) a preannunciare l’intenzione di destinare centinaia di migliaia di euro all’installazione di nuove telecamere in diversi punti della città. Oggi quel progetto si concretizza, in un modo che stride con l’immagine simpatica del “sindaco chitarrista”, sensibile alle questioni sociali, che cerca di lanciare l’idea di un’amministrazione giovane e aperta al confronto con i cittadini.
Ma a quale dibattito è seguita la decisione sulle telecamere, progetto evidentemente in cantiere da tempo? A quali esigenze risponde? A quelle della Prefettura e della Questura di Sassari o dei suoi abitanti? Da dove nasce davvero questa idea? È mutuata da altre città, nata dalla scarsità di idee alternative o dalla voglia di assecondare gli urlatori da tastiera sulle pagine social?
Risponde al disagio del centro storico? Di chi non ci metterebbe piede per nessuna ragione al mondo, e che vorrebbe maggiore controllo per proteggersi sempre di più da chi lo abita? È una risposta alle esigenze dei commercianti che ancora resistono in alcune di quelle strade? Dei “sassaresi in ciabi” o nuovi residenti? Di chi?
Mascia presenta oggi questo progetto come una “collaborazione tra pubblico e privato”, quasi che l’idea di sicurezza dovesse tradursi in una responsabilità aggiuntiva a carico dei cittadini, che dovranno pure sostenerne i costi (oltre alle tasse già versate allo Stato e ai Comuni). Ma in questo concetto c’è qualcosa di più grave: non si tratta solo di un contributo economico, ma della partecipazione diretta al controllo sociale, che trasforma le persone in strumenti di sorveglianza. Così si amplia la distanza tra chi subisce il disagio sociale e chi pretende di risolverlo con una telecamera. Il problema del disagio non si affronta alla radice: lo si nasconde o lo si allontana, ma non lo si risolve. E se accade qualcosa, non potrai più dire che il Comune non ha fatto abbastanza: sei tu che non hai partecipato.
Il controllo sociale si presenta sulle pagine dei principali quotidiani come gesto civico, infarcito di termini come “partecipazione” e “contributo alla sicurezza condivisa”. Ma in realtà è un meccanismo di corresponsabilizzazione forzata, che scarica sui cittadini le cause di un degrado urbano e di una sofferenza economica gigantesca in cui, da almeno venticinque anni, è sprofondata la nostra città. Un degrado a cui le amministrazioni che si sono succedute – di destra o di sinistra – non hanno saputo né voluto rispondere, inseguendo ciecamente politiche che prevedevano l’allontanamento del commercio dal centro per spostarlo nella “Zona Industriale”, favorendo così i centri commerciali e garantendo introiti sicuri alle casse comunali. Una quindicina d’anni fa Sassari era al vertice della classifica europea per espansione dei grandi supermercati in rapporto agli abitanti: 172 metri quadri ogni mille persone. È in questo contesto che si inserisce il piano che ha portato alla distruzione del commercio cittadino, il cui asse portante erano i mercatini rionali, i negozietti sparsi in ogni via e l’allora ricchissimo Mercato Civico. La sua ristrutturazione si è rivelata il colpo mortale per la città (non solo per il centro storico), per via dei tempi e di un risultato di “riqualificazione” più che discutibile. Questioni su cui nessun politico locale ha mai fatto mea culpa, e che non sono mai state davvero al centro di un dibattito politico serio. Eppure quel tessuto economico e sociale faceva di Sassari – e del suo centro storico – una città viva, pur con i suoi problemi, che si è scelto di distruggere scientemente.
Il centro storico di Sassari, oggi descritto come un supermarket dello spaccio e della prostituzione, è il risultato diretto di scelte politiche che hanno distrutto il tessuto sociale ed economico di questa città. E a poco servono le notti bianche, le feste comandate o le ricorrenze di facciata. Sassari ha bisogno di una trasformazione radicale, di un cambio di paradigma, di una visione politica reale che mal si sposa con il controllo sistematico dei cittadini attraverso la videosorveglianza.
Le nostre città sono ormai strapiene di telecamere. Eppure furti, rapine e atti vandalici continuano. Segno che la videosorveglianza non è la soluzione: al massimo, è una stampella che alimenta la paura, solca le distanze, crea barriere e diffidenza.
Sassari vive l’incubo di una povertà crescente, con oltre 8.000 famiglie in difficoltà. Una su sei si trova in una condizione economica fragile, aggravata dai costi della vita sempre più alti. Non è un problema che riguarda solo il centro storico o o gli immigrati, ma l’intera città. È comprensibile come ciò generi disagio e spinga le persone a inventarsi espedienti per sopravvivere, che nessuna telecamera potrà mai eliminare. Sono queste le sfide che l’amministrazione dovrebbe affrontare, senza ricorrere all’installazione di telecamere ovunque per garantire solo una parvenza di tranquillità e sicurezza, che nella realtà non esistono. I sostenitori di questo progetto si riempiranno la bocca di “riqualificazione degli spazi pubblici” e di “deterrenza alla delinquenza”. Ma non c’è nulla di più fuorviante: questo non risolve il problema, è solo funzionale alla logica del facile consenso.
La videosorveglianza partecipata è il perfetto esempio di questa evoluzione: non c’è più un Grande Fratello che impone il controllo, ma una comunità che lo accetta e lo costruisce da sé.
Nel romanzo 1984 di George Orwell, il potere del Grande Fratello si fondava sull’obbligo di essere osservati. Oggi quella stessa logica si traveste da collaborazione civica. Il “fratello maggiore” non è più una figura autoritaria, ma un vicino di casa che installa una telecamera e condivide i dati con le autorità. È la trasformazione della sorveglianza in gesto partecipativo: un controllo che si alimenta del consenso dei sorvegliati.
Durante la pandemia da Covid-19 abbiamo sperimentato una forma estrema di vigilanza sociale: tracciamenti, autocertificazioni, green pass. Tutto giustificato dall’emergenza sanitaria, certo. Ma quell’esperienza ha lasciato un’eredità sottile: la convinzione che la sicurezza, in qualsiasi forma, valga più della libertà. Oggi quella mentalità si ripresenta con nuove parole e nuove giustificazioni. Non è più la paura del contagio, ma quella della criminalità o dell’atto vandalico a legittimare il controllo. Cambia la minaccia, ma non il meccanismo.
La verità è che la sicurezza non si costruisce con le telecamere, ma con la presenza delle persone nelle strade e nei quartieri, con la fiducia e la costruzione di comunità in cui cultura, socialità e rapporti tra le persone siano al centro. Un quartiere vissuto, illuminato, attraversato da attività economiche e culturali è più sicuro di uno blindato e iper-sorvegliato. Ma investire in coesione sociale è meno visibile, meno immediato e politicamente meno spendibile. Una telecamera, invece, si installa in un giorno. È la politica dell’apparenza, che non risolve i problemi ma li gestisce visivamente, rispondendo a un populismo becero che invoca più guardie anziché più interventi strutturali sulla società.
E non basta ristrutturare un edificio, aprire un ufficio dal nome accattivante in inglese o riempire i giornali di slogan per compensare l’assenza di prospettive politiche capaci di rendere le nostre città di nuovo frequentate e vive, come vorremmo per il centro storico e per l’intera città, comprese borgate e periferie troppo spesso dimenticate. Insomma, ci vorrebbe un modo diverso di fare politica, basato sulla sostanza dei suoi interventi. Investendo invece in videosorveglianza, si costruisce la città della paura: ordinata e pulita, ma incapace di creare una comunità viva e di rinascere davvero, sia sul piano economico che su quello sociale.
(Giovanni Fara)






