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A proposito di Gramsci e del Latino


Siamo lieti di condividere con voi un contributo firmato da Tecla Terazzi, che ci invita a riflettere sull
’importanza dello studio delle lingue classiche attraverso le parole di Antonio Gramsci. L’articolo intreccia la biografia del grande intellettuale sardo con la sua visione del sapere come strumento di emancipazione e democrazia, un tema quanto mai attuale nel panorama educativo di oggi. Buona lettura!

Essendo ripresa la scuola e poiché anche quest’anno scolastico come ogni precedente e ogni successivo, è carico di incertezze forse anche di più rispetto ai corrispondenti periodi trascorsi sia per gli insegnanti sia per gli studenti e le rispettive famiglie (di studenti e docenti), ho voluto rileggere il breve e intenso brano di Gramsci sull’importanza di studiare il greco e il latino (cfr. Quaderni dal Carcere 4 [XIII] voce 55).

Prima di entrare direttamente in medias res, nel cuore dell’argomento, però va data una minima presentazione dell’autore. Antonio Gramsci nacque a Ghilarza, paesino di campagna della Sardegna, nel 1891 e iniziò a frequentare tardi le scuole elementari a causa della sua precoce malformazione fisica dovuta o a una caduta dalle braccia della balia o più probabilmente a una tubercolosi ossea. Tuttavia portò a termine con successi questo primo ciclo scolastico, poiché era anche l’unico tra i suoi coetanei a parlare correntemente e con proprietà di linguaggio l’italiano, e in seguito si iscrisse allo scalcinato ginnasio Carta-Meloni di Santu Lussurgiu, da dove il sabato tornava a casa a Ghilarza talvolta a piedi col pericolo di venire impallinato dai briganti che si davano alla macchia in quell’area (come scrive in una delle lettere dal carcere). Poi attese alle classi del liceo e riuscì a vincere una borsa di studio per l’università di Torino nel medesimo concorso da cui uscì vincitore anche Togliatti, che avrebbe conosciuto successivamente nel capoluogo piemontese. A Torino, quindi, si immatricolò alla facoltà di Lettere con Filologia moderna, ma non portò a termine gli studi a causa delle sue generali condizioni di prostrazione fisica (a causa della denutrizione e della sua situazione di studente povero, che con le sole 70 lire mensili della borsa di studio era costretto a una eccessiva economia) e della incipiente attività giornalistica e politica. Ad ogni modo Antonio, vorace lettore fin da bambino, non smise mai di studiare e specialmente durante i durissimi anni di carcere a Turi (Puglia) si sarebbe trovato a dover combattere sia direttamente sia tramite la cognata Tania Schucht un’aspra battaglia per vedersi concessa da Mussolini la matita e la facoltà di leggere e scrivere.

Il nostro intellettuale sardo, dunque, è stato sempre uno studente, fino alla fine della sua vita e in particolare nel brano citato nell’introduzione scrive come le lingue classiche siano importanti e vadano ancora studiate, poiché trasmettono (come ogni lingua) l’immagine di un popolo e di una civiltà che non debbono essere dimenticati. Greci e Romani, infatti, sono il nostro passato e se ogni uomo per Gramsci è e vuole considerarsi tale in quanto essere storico e cittadino a maggior ragione deve conoscere le proprie radici e la provenienza della propria cultura. Eppure già all’epoca doveva esserci chi propendeva per scuole tecniche e professionali, ritenendo greco e latino materie obsolete perché non immediatamente formative. La risposta gramsciana a questa polemica, che talvolta anche oggigiorno torna a riaccendersi con toni più o meno battaglieri, è interessante e a mio parere tuttora valida.

Lo studio delle materie letterarie è formativo e disinteressato, ma soprattutto “democratico” e l’accesso ad essi va permesso a qualunque studente. Al contrario perpetuare una presunta superiorità di un indirizzo professionale e tecnico-pratico, questo sì non sarebbe democratico, poiché porterebbe a cristallizzarvi quello strato sociale subalterno ad esso deterministicamente connaturato. Ovvero, per spiegare il concetto con parole più semplici e forse brutali, il figlio di un contadino o di un operaio sarebbe costretto a frequentare una scuola professionale poiché per sua (sempre presunta) arretratezza culturale non potrebbe accedere a studi più elevati. E ciò appunto secondo Gramsci contribuirebbe ad aumentare lo iato già esistente tra i ceti sociali e a trasformare in elitari gli studi classici. Pertanto, bisognerebbe agire diversamente permettendo a tutti di accedere alle medesime basi culturali, poiché ciò significherebbe davvero «[…] che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare».

Infine, una nota: lo studio comporta disciplina ed è un mestiere faticoso, al quale non andrebbero concesse facilitazioni solo perché si usi ritenere solo il lavoro manuale e concreto effettivamente fatica e lavoro. Di conseguenza lo studente deve adattarvisi con sforzo, dolore e noia indifferentemente dal ceto sociale di provenienza e la società stessa non dovrebbe snaturare (come purtroppo sta ormai avvenendo da diverso tempo) la scuola e l’importanza specialmente delle materie classiche. Soprattutto «se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate…» e cioè i ceti cosiddetti subalterni.

(Tecla Terazzi)

Bibliografia minima:
– D’Orsi A., Gramsci – Una nuova biografia, Feltrinelli (2017)
– Fiori G., Vita di Antonio Gramsci, voll.1 e 2, Laterza (1991)
– Gramsci A., Lettere dal Carcere, 1926-1937 (qualunque edizione)
– Lombardo Radice L., Carbone G., Vita di Antonio Gramsci, Edizioni di Cultura Sociale (1951) 
(a cura di) Ricchini C., Manca E., Melograni L., Gramsci – Le sue idee nel nostro tempo, Supplemento al numero de L’Unità del 12 aprile 1987
– Spriano P., Gramsci in carcere e il partito, Supplemento al numero de L’Unità del 13 marzo 1988

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