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Recensione di «Gli occhi di Penelope» – Fabrizio Raccis, un poeta Gilanico


La poesia è universale: tutti da che l’umanità esiste ne hanno letta, ascoltata e studiata. Pochi i poeti, sacri o forse sacrosanti, insieme destinati alla nobiltà degli dei olimpi e sottoposti al vegliare di quelli Inferi. Oggigiorno, poi, più che mai viviamo nella prosaicità, se non nella violenza del banale, del transeunte e dell’ignoranza. Dunque, leggere ancora le opere di qualche fortunato contemporaneo e relativamente giovane baciato dalle Muse è come un balsamo per l’animo.

Così, di nuovo mi trovo a leggere e commentare un’opera del cagliaritano Fabrizio Raccis. Dopo Carne di Betzabea è la volta del suo seguito Gli occhi di Penelope (Catartica Edizioni, Collana Tremori): un canzoniere a tappe basato sia sulle note eteree di quanto evocato dalle parole poetate sia sulla fresca concretezza dei sensi. Vista, olfatto, tatto, udito e gusto. Il linguaggio dell’autore, infatti, è quasi tridimensionale: trasporta in un oltre di mare, spiagge, isole, salsedine salmastra, occhi e corpo di donna, ma anche cuore, pulsare delle onde, ritmico respiro della terra e di chi lo abbraccia per poi dormire sfiancata e amata di fianco a lui.

Sempre originale: se con la prima raccolta si era ispirato alla figura biblica della moglie del re Davide, ora ripercorre Omero stesso, immaginandosi Ulisse nel mare piatto – galene direbbe il cieco di Chio – della contemporaneità. E se anche Leopardi scrisse che dopo Omero nessuno può dirsi poeta e tantomeno genuinamente nuovo, Fabrizio porta un che di lontano, antico e insieme davvero intrigante, anticonformista. Scrive dell’invidia degli dei per i mortali, concetto per noi ormai defunto; canta di maghe, di sirene, di ninfe, di bagnasciuga e di un amore che teme di perdere o forse che si affievolisca. Un amore forte, che è anche voler bene, affetto profondo come quello che Catullo non poteva più provare per la sua Lesbia. Un amore che è erotico per la donna amata, nostalgia per la nonna materna, tenerezza per i propri figli. Un amore non scontato nel mondo odierno, dove tutto compriamo e talvolta crediamo di acquistare a peso d’oro anche la benevolenza e l’affetto altrui. Un sentimento “gilanico” come scritto nell’introduzione di M. Licheri (pag.7).

«Gilanico»? Parola a me sconosciuta e appresa leggendo questa raccolta. L’aggettivo fa riferimento alla gilania, teoria sociologica e antropologica creata e sviluppata dalle studiose R. Eisler e M. Gimbutas secondo cui le società preistoriche avevano una struttura basata sulla pariteticità tra donne e ruoli e sulla condivisione dei compiti e cooperazione. Una società che oggi taluni ritengono sia invenzione di pochi folli che hanno sostenuto idee e teorie altrettanto inapplicabili, come il matriarcato, e indimostrabili per la scarsità di reperti archeologici inconfutabili.

Ad ogni modo, che sia vero o no questo mondo preistorico paritario, nella poesia di Fabrizio Raccis si respira un rispetto e un affetto che spero oltrepassino questo mondo di odiatori e di leoni da tastiera e che trovino la loro legittima valorizzazione da parte di altri letterati e commentatori.

(Tecla Terazzi)



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