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Esclusione e marginalizzazione culturale: la scuola che teme la pluralità


Mentre migliaia di studenti affrontano gli esami di maturità, tra programmi ufficiali e prove standardizzate, ci sembra importante portare l’attenzione su un aspetto poco discusso, e per noi tutt’altro che marginale: da oltre un decennio, la scuola italiana ignora sistematicamente Grazia Deledda, unica autrice del contesto linguistico e culturale italiano insignita del Premio Nobel per la Letteratura, escludendola dai programmi ufficiali di studio. Una scelta che non è solo un’ingiustizia culturale, ma un atto deliberato di subordinazione nei confronti della Sardegna, della sua identità letteraria e della voce femminile più importante del secolo scorso. Il Decreto del Presidente della Repubblica 89/2010, firmato sotto il ministero Gelmini, ha stabilito le linee guida per i licei, indicando diciassette autori principali per la poesia e la narrativa del Novecento. Dentro ci sono Ungaretti, Montale, Calvino, Pasolini, Meneghello. Tutti uomini. Ma non c’è Deledda. Un segnale più che indicativo.

Non si tratta di una semplice dimenticanza, ma di una rimozione strutturale e consapevole. Una cancellazione che attraversa i governi, da Monti a Letta, da Renzi a Draghi, fino all’attuale esecutivo, nel silenzio generale dell’intellighenzia culturale italiana. L’esclusione di Grazia Deledda si inserisce in un quadro più ampio, che coinvolge anche altri grandi scrittori sardi – Emilio Lussu, Salvatore Satta, Giuseppe Dessì – sistematicamente marginalizzati dai programmi scolastici. Questa esclusione è l’ennesima dimostrazione di una cultura italiana che agisce da potere coloniale, imponendo un’unica narrazione dominante e relegando ai margini le culture minoritarie, come quella sarda. Ma è anche la manifestazione evidente di una cultura nordcentrica che fatica ad accettare le voci che provengono dalla periferia. Una scuola che forma cittadini a un’identità monolitica, dove la pluralità è un fastidio e la differenza un elemento da rimuovere.

Eppure Grazia Deledda è tutto tranne che marginale. Ha scritto romanzi, racconti, testi etnografici e saggi. Il Premio Nobel le fu conferito nel 1926 per la capacità di riflettere il conflitto universale attraverso storie che intrecciano antico e moderno, con il realismo che caratterizza la sua opera. Le sue pagine sono state tradotte in tutto il mondo, dalla Francia alla Russia. Ma in Italia, il suo nome resta fuori da ogni serio percorso di studio, come se non valesse abbastanza.

La colpa è anche della storia accademica italiana. Benedetto Croce, nel 1940, la liquidò con una sentenza feroce, dicendo che la sua era una letteratura “regionale”, incapace di parlare all’Italia colta. Quell’etichetta è rimasta addosso alla Deledda come un marchio d’inferiorità. Eppure, già giovanissima, la scrittrice nuorese documentava con serietà la cultura popolare, raccogliendo proverbi, superstizioni, racconti orali, mostrando una consapevolezza critica e un rigore da antropologa. Ma era donna, in gran parte autodidatta, sarda, e dunque fuori dagli schemi imposti dalla cultura dominante e ufficiale.

L’esclusione di Grazia Deledda dai programmi scolastici è dunque il sintomo di una scuola che ha paura della complessità e dell’identità culturale che il suo nome rappresenta, quello di un’isola con precise peculiarità storico-culturali.

E nonostante alcuni progetti sporadici – come quello promosso dal MIUR per l’anno scolastico 2016/17, intitolato “Grazia Deledda, donna e scrittrice, a novant’anni dal Nobel per la letteratura”, che ha previsto un bando rivolto agli istituti per realizzare attività didattiche e culturali dedicate alla scrittrice – il suo inserimento nei percorsi didattici resta occasionale e marginale. Le richieste di associazioni culturali e femminili, come la FASI e Noi Donne, che chiedono da anni il suo reinserimento nel canone, sono ancora ignorate.

Nel frattempo, la scuola italiana continua a riprodurre lo stesso modello di canone letterario: omogeneo e “maschile”. Un canone che si autoalimenta ed esclude non per distrazione, ma per scelta politica. Così, mentre nel mondo si riscopre il valore delle culture e delle letterature minoritarie e della scrittura femminile – come Mariama Bâ (Senegal), con il suo romanzo Une si longue lettre che intreccia tradizione e modernità, Toni Morrison (USA), prima donna afroamericana vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura nel 1993, voce fondamentale della letteratura postcoloniale e femminile, e Chimamanda Ngozi Adichie (Nigeria), che affronta temi di identità e femminismo – in Italia si perpetua l’idea di una cultura nazionale unica, gerarchica e senza contraddizioni.

Eppure Grazia Deledda non è una meteora, non è un’eccezione da commemorare ogni vent’anni. È una figura centrale e va restituita nella sua dignità di autrice di riferimento. La sua presenza nelle scuole non è una gentile concessione, è una necessità storica e culturale. Il Ministero dell’Istruzione ha il dovere di rivedere i programmi, di aprire alla pluralità e alla complessità, di rimettere al centro chi ha fatto la storia della letteratura ma è stata cancellata per convenienza o ignoranza.

Non basta celebrare Grazia Deledda con una targa o un francobollo. Bisogna rimetterla nei libri, al centro dei programmi di formazione scolastica.

(La Redazione)

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