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Goffredo Fofi: un intellettuale fuori dagli schemi


Indielibri nasce per dare spazio a voci che sfuggono all’omologazione, per raccontare pratiche culturali libere, dissidenti, non allineate. È naturale, allora, sentire vicina una figura come Goffredo Fofi. Un intellettuale che ha camminato ai margini per raccontarli, comprenderli, farli parlare. Con questo articolo vogliamo ricordare chi è stato, per rendere omaggio a una figura che lascia un’eredità critica di riferimento per la cultura libera e indipendente.

Goffredo Fofi è mancato l’11 luglio 2025, a Roma. Nato a Gubbio nel 1937, in una famiglia di proletari mezzadrili umbri. Suo padre era un artigiano socialista. Un contesto rurale e popolare che gli ha permesso di studiare, diventare maestro elementare e sviluppare fin da giovanissimo una sensibilità sociale profonda.

A diciott’anni si trasferisce in Sicilia per affiancare Danilo Dolci nelle lotte nonviolente contro la mafia e per i diritti dei disoccupati. Partecipa agli “scioperi al rovescio”, in cui i disoccupati lavoravano gratis alla sistemazione della trazzera vecchia, una strada comunale abbandonata nei dintorni di Partinico, per rivendicare il diritto al lavoro sancito dalla Costituzione. Viene arrestato e colpito da un foglio di via.

Questa esperienza segna la sua visione del mondo: giustizia sociale, lotta dal basso, rifiuto della neutralità intellettuale.

Negli anni Sessanta lavora a Parigi per la rivista di cinema Positif, poi torna in Italia e avvia molte delle esperienze culturali più radicali del dopoguerra.

Basta citare le riviste che ha fondato o diretto per capirne il peso: Quaderni piacentini, Ombre Rosse, La Terra vista dalla Luna, Linea d’Ombra, Lo Straniero, Gli Asini. Ma ogni rivista era molto più di una semplice testata: veri e propri laboratori di pensiero e pratica politica, spazi collettivi, irriducibili ai format dell’industria culturale, capaci di connettere generazioni e linguaggi non omologabili.

La sua critica – mai neutra – non si limitava a valutare un’opera, ma interrogava la sua funzione sociale. Per questo ha avuto un ruolo fondamentale anche come critico cinematografico, probabilmente il suo contributo più rilevante e longevo.

Fofi è stato un intellettuale radicale e fuori dagli schemi. Non un accademico, non un commentatore,
ma un artigiano della cultura. Pensare, per lui, significava agire. Scrivere, scegliere da che parte stare. Il mainstream lo ha definito un “rompiscatole gentile”, quasi a renderlo inoffensivo. Ma la verità è che la sua figura ha saputo edificare un pensiero critico, anche in modo divisivo e inevitabilmente disturbante. Ha fatto cultura come si fa politica: con passione e una dose immancabile di conflittualità.

La sua voce ha sempre dato spazio a chi non ne aveva: giovani, migranti, disoccupati, periferie marginali. La cultura, per lui, era un atto politico. Non da esercitare in solitudine, ma collettivamente. E soprattutto contro: contro la rassegnazione, contro la retorica del merito, contro l’idea che il sapere serva solo a fare carriera.

Ha rifiutato il ruolo dell’intellettuale organico al sistema. Ha denunciato la trasformazione della cultura in corte servile, ha criticato la sinistra quando si allontanava dal popolo. Ha costruito spazi autonomi – scuole, riviste, comunità temporanee – dove si potesse disobbedire, imparare, creare visioni alternative.

Per approfondire la conoscenza del pensiero e del percorso di Fofi, consigliamo alcuni tra i suoi libri più significativi:

- L’immigrazione meridionale a Torino (Feltrinelli, 1964), che racconta l’emigrazione dal Sud nella capitale industriale e gli costò la rottura con Einaudi.
- Il cinema italiano. Servi e padroni (Feltrinelli, 1971)
- Totò. L’uomo e la maschera (Feltrinelli, 1977), con cui – insieme a Pasolini – contribuì alla rivalutazione critica di Totò
- Benché giovani. Crescere alla fine del secolo (E/O, 1993)
- Da pochi a pochi. Appunti di sopravvivenza (Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 2006)
- La vocazione minoritaria. Intervista alle minoranze (Laterza, 2009)
Quest’ultimo è un manifesto del suo pensiero. Scriveva: “Una delle astuzie della società attuale è di aver convinto i poveri ad amare i ricchi, a idolatrare la ricchezza e la volgarità. In passato i poveri solitamente non amavano i ricchi: li si convinceva, anche con la forza, a sopportare la loro condizione, si tollerava anche che peccassero di invidia, al più li si spaventava con la prospettiva delle pene dell’inferno”.

Fofi ha praticato una pedagogia della minoranza intesa non come semplice condizione di marginalità o passività, ma come uno spazio vitale in cui i soggetti diventano portatori attivi di visioni critiche e alternative.
La sua eredità non è un monumento, ma un esempio per chi vuole continuare a fare cultura in modo critico e indipendente. Serve a chi vuole continuare a pensare in modo autonomo, a costruire spazi di libertà, a fare cultura come atto politico. Non per compiacere, ma per disturbare. Non per salire in cattedra, ma per creare nuove possibilità. 

(La Redazione)

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