Cultura in Sardegna: tra condizionamenti e ipocrisie
Punto e a capo
Ogni estate, la Sardegna si riempie di eventi culturali che promettono apertura, pluralismo e confronto. Festival, rassegne, incontri con l’autore: il solito copione ben confezionato in cui si fa passerella tra i libri e si stende il tappeto rosso ai nomi più noti del mainstream, della cultura di massa, massificante e a senso unico.
Dietro l’apparente neutralità di questi appuntamenti spesso si nasconde una regia precisa, con interessi altrettanto precisi: quelli dei finanziatori, delle istituzioni che patrocinano, dei palinsesti calibrati per non disturbare nessuno.
Il caso del Festival Liberevento, che quest’anno ospiterà il giornalista Maurizio Molinari con il patrocinio del Comune di Iglesias, ha scatenato una polemica che merita attenzione. Sotto la patina del “pluralismo”, si legittima una figura che non rappresenta una voce qualsiasi, ma un preciso orientamento ideologico: quello che giustifica l’occupazione israeliana in Palestina, minimizza il genocidio in corso a Gaza e trasforma i carnefici in vittime.
Qui non si tratta di pluralismo, ma di una scelta che finisce per allinearsi alle logiche del potere mediatico e istituzionale. E quando la cultura si presta a fare da megafono al potere, allora bisogna fermarsi e chiedersi: di quale cultura stiamo parlando?
A sollevare la polemica e l’attenzione sul caso ci ha pensato il collettivo Malarittas, attraverso un comunicato stampa: «Troviamo gravissimo e incoerente che, a poche settimane dall’approvazione in Consiglio comunale di una mozione per il riconoscimento dello Stato di Palestina, questa stessa amministrazione finanzi la partecipazione di una figura pubblica che si è ripetutamente distinta per il suo sostegno all’occupazione israeliana».
Dietro l’apparente neutralità di questi appuntamenti spesso si nasconde una regia precisa, con interessi altrettanto precisi: quelli dei finanziatori, delle istituzioni che patrocinano, dei palinsesti calibrati per non disturbare nessuno.
Il caso del Festival Liberevento, che quest’anno ospiterà il giornalista Maurizio Molinari con il patrocinio del Comune di Iglesias, ha scatenato una polemica che merita attenzione. Sotto la patina del “pluralismo”, si legittima una figura che non rappresenta una voce qualsiasi, ma un preciso orientamento ideologico: quello che giustifica l’occupazione israeliana in Palestina, minimizza il genocidio in corso a Gaza e trasforma i carnefici in vittime.
Qui non si tratta di pluralismo, ma di una scelta che finisce per allinearsi alle logiche del potere mediatico e istituzionale. E quando la cultura si presta a fare da megafono al potere, allora bisogna fermarsi e chiedersi: di quale cultura stiamo parlando?
A sollevare la polemica e l’attenzione sul caso ci ha pensato il collettivo Malarittas, attraverso un comunicato stampa: «Troviamo gravissimo e incoerente che, a poche settimane dall’approvazione in Consiglio comunale di una mozione per il riconoscimento dello Stato di Palestina, questa stessa amministrazione finanzi la partecipazione di una figura pubblica che si è ripetutamente distinta per il suo sostegno all’occupazione israeliana».
Hanno ragione. Non si può giocare su due tavoli: con una mano si firma una mozione per i diritti, con l’altra si finanzia – con soldi pubblici – chi quei diritti li deride.
Sono convinto che la scelta di invitare Molinari non sia frutto di una semplice leggerezza, ma risponda a dinamiche ben più complesse e consolidate: rapporti che corrono tra i festival e chi li sponsorizza e li finanzia. È su questo terreno che dovrebbe concentrarsi il ragionamento, la riflessione – e anche l’azione – di chi, in Sardegna, propone contenuti diversi, operando dal basso, spesso tra mille difficoltà, con risorse limitate e troppe porte sbarrate, soprattutto se si propongono contenuti non allineati e scomodi.
Il ragionamento dovrebbe coinvolgere chi, a vario titolo, si occupa di cultura. Quanto i festival sono davvero liberi, sganciati da quei complessi equilibri che veicolano consenso e potere?
Sono convinto che la scelta di invitare Molinari non sia frutto di una semplice leggerezza, ma risponda a dinamiche ben più complesse e consolidate: rapporti che corrono tra i festival e chi li sponsorizza e li finanzia. È su questo terreno che dovrebbe concentrarsi il ragionamento, la riflessione – e anche l’azione – di chi, in Sardegna, propone contenuti diversi, operando dal basso, spesso tra mille difficoltà, con risorse limitate e troppe porte sbarrate, soprattutto se si propongono contenuti non allineati e scomodi.
Il ragionamento dovrebbe coinvolgere chi, a vario titolo, si occupa di cultura. Quanto i festival sono davvero liberi, sganciati da quei complessi equilibri che veicolano consenso e potere?
Occorrerebbe affrontare la questione in modo aperto e pubblico: chi finanzia? Chi contribuisce economicamente? Su cosa si reggono certi festival?
L’Associazione ContraMilonga ETS, organizzatrice del Festival Liberevento, parla di pluralismo, varietà, cultura aperta. Ma c’è una differenza sostanziale tra pluralismo e legittimazione. Invitare Molinari, pagargli un gettone con fondi pubblici, offrirgli un palco istituzionale non è pluralismo. È piuttosto la consacrazione della notorietà, che giustifica la presenza del personaggio a prescindere dal valore e dal significato dei contenuti proposti.
Ma chi sceglie i programmi? Chi decide gli ospiti? Chi stabilisce i temi da affrontare? Non stride che un Comune, appena impegnato a sostenere le ragioni della Palestina contro il massacro in corso a Gaza, possa patrocinare senza imbarazzo chi sostiene posizioni diametralmente opposte?
E non si tratta nemmeno di un dibattito o di un confronto, è bene ricordarlo. Molinari sarà lì per presentare un libro, La nuova guerra contro le democrazie, che offre un vero e proprio assist alle logiche guerrafondai che attraversano oggi l’Europa, nel tentativo di convincerci che i conflitti e le tensioni internazionali – dall’Ucraina al Medio Oriente, dall’Africa all’Estremo Oriente – siano del tutto scollegati dalle responsabilità delle politiche occidentali.
Questa non è divulgazione, né narrativa: è propaganda politica. E il fatto che venga proposta come “evento culturale”, senza alcun contraddittorio, dovrebbe sollevare interrogativi etici.
Che valore ha, quindi, un evento culturale – che per definizione dovrebbe affrontare temi di attualità senza condizionamenti, aprire dibattiti e sollevare uno sguardo critico su ciò che ci succede attorno – se poi, di fatto, il sistema che lo alimenta non consente di uscire da certi meccanismi?
Ci si può davvero svincolare dalle narrazioni decise e imposte al pubblico nell’ambito di eventi di un certo rilievo? Quale reale autonomia hanno, in questo senso, Comuni e promotori? Esistono condizioni strutturali a monte che determinano, sulla base dei finanziamenti, l’accettazione di certi ospiti e certe linee editoriali? Davvero questi eventi sono liberi e strutturati su un reale interesse culturale, o rispondono piuttosto ad altre, ben più complesse, dinamiche economiche e di influenza?
L’Associazione ContraMilonga ETS, organizzatrice del Festival Liberevento, parla di pluralismo, varietà, cultura aperta. Ma c’è una differenza sostanziale tra pluralismo e legittimazione. Invitare Molinari, pagargli un gettone con fondi pubblici, offrirgli un palco istituzionale non è pluralismo. È piuttosto la consacrazione della notorietà, che giustifica la presenza del personaggio a prescindere dal valore e dal significato dei contenuti proposti.
Ma chi sceglie i programmi? Chi decide gli ospiti? Chi stabilisce i temi da affrontare? Non stride che un Comune, appena impegnato a sostenere le ragioni della Palestina contro il massacro in corso a Gaza, possa patrocinare senza imbarazzo chi sostiene posizioni diametralmente opposte?
E non si tratta nemmeno di un dibattito o di un confronto, è bene ricordarlo. Molinari sarà lì per presentare un libro, La nuova guerra contro le democrazie, che offre un vero e proprio assist alle logiche guerrafondai che attraversano oggi l’Europa, nel tentativo di convincerci che i conflitti e le tensioni internazionali – dall’Ucraina al Medio Oriente, dall’Africa all’Estremo Oriente – siano del tutto scollegati dalle responsabilità delle politiche occidentali.
Questa non è divulgazione, né narrativa: è propaganda politica. E il fatto che venga proposta come “evento culturale”, senza alcun contraddittorio, dovrebbe sollevare interrogativi etici.
Che valore ha, quindi, un evento culturale – che per definizione dovrebbe affrontare temi di attualità senza condizionamenti, aprire dibattiti e sollevare uno sguardo critico su ciò che ci succede attorno – se poi, di fatto, il sistema che lo alimenta non consente di uscire da certi meccanismi?
Ci si può davvero svincolare dalle narrazioni decise e imposte al pubblico nell’ambito di eventi di un certo rilievo? Quale reale autonomia hanno, in questo senso, Comuni e promotori? Esistono condizioni strutturali a monte che determinano, sulla base dei finanziamenti, l’accettazione di certi ospiti e certe linee editoriali? Davvero questi eventi sono liberi e strutturati su un reale interesse culturale, o rispondono piuttosto ad altre, ben più complesse, dinamiche economiche e di influenza?
E quali sono le giustificazioni che la politica mette in campo per rispondere alle critiche?
Il Comune si è rifugiato nella più classica formula cerchiobottista: libertà d’espressione e rispetto delle diverse sensibilità, senza alcuna reale presa di posizione né revoca di patrocinio.
Ma il problema non si ferma a Iglesias. Questo è solo l’ultimo esempio di un sistema consolidato che, in Sardegna, condiziona pesantemente la vita culturale. Un sistema fatto di finanziamenti, silenzi strategici, clientele e interessi trasversali.
In quest’isola, la cultura non è libera: è tenuta in vita da chi paga. E chi paga detta le condizioni.
I grandi festival – benedetti dalla Regione, sponsorizzati dai Comuni e dalla stampa – diventano strumenti di equilibrio politico. Non disturbano. Non fanno domande scomode. E quindi ricevono tutto: fondi, patrocini, visibilità.
Nel frattempo, centinaia di piccole realtà culturali vengono ignorate, marginalizzate, oscurate. Non per mancanza di qualità, ma perché scomode.
È questo il vero problema: la cultura in Sardegna viene selezionata non per ciò che dice, ma per chi la sostiene. E chi la sostiene, spesso, chiede in cambio una cosa sola: silenzio. Silenzio su guerre, occupazione militare, produzione e sperimentazione di armamenti, ingiustizie, ipocrisie istituzionali, assalto predatorio al territorio, speculazioni di ogni genere.
Ma la cultura, ridotta a passerella innocua, può davvero restare ostaggio di una gestione istituzionale, spesso paternalista, che decide chi può parlare e chi deve restare ai margini?
La libertà d’espressione è un valore solo se non è selettiva, né piegata – come troppo spesso accade – alle voci dei soliti noti: grandi gruppi editoriali, media mainstream, festival pilotati da enormi flussi di denaro e visibilità.
La polemica di Iglesias offre spunti preziosi per chi voglia affrontare il dibattito in modo onesto, per chi voglia davvero aprire gli spazi della cultura a voci nuove, diverse, capaci di rompere con la narrazione dominante e dare finalmente valore a ciò che il sistema esclude, ignora o silenzia.
(Giovanni Fara)
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