Maturità 2025. Protestano gli studenti, ma a far rumore sono i “vecchi” che spiegano come si protesta
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Foto: Rete degli studenti medi: https://www.facebook.com/retedeglistudenti |
Punto e a capo
Ne avevo già scritto su indielibri, quando Gianmaria Favaretto – studente del liceo Fermi di Padova – ha detto no all’orale, dopo aver spiegato le sue ragioni e discusso con la commissione (qui il mio articolo precedente: Maturità: quando dire no è la vera prova). Non per pigrizia, ma per denunciare una scuola che riduce le persone a numeri e voti, impone un sistema competitivo e individualista. Una scuola che sembra formare una cultura dove conta essere solo più performante degli altri.
Poi sono arrivati altri casi: Maddalena Bianchi, da Belluno, ha rifiutato l’orale ma ha tenuto un discorso alla commissione. Spiegando che nella scuola c’è troppa competizione, troppa pressione, zero empatia. Un altro studente a Treviso non si è presentato. Un quarto, ancora, Pietro Marconcini, da Roma, si è rivolto direttamente al ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara chiedendo che il suo voto della maturità fosse abbassato da 83 a 60 centesimi come forma di protesta contro il sistema di valutazione scolastico.
Quattro gesti diversi, ma un unico messaggio: “l’esame va ripensato e la scuola così com’è non rappresenta più gli studenti che la vivono ogni giorno”.
La reazione? Quella di sempre. Ironia tossica, paternalismo, insulti da tastiera. Pochissime voci fuori dal coro. Il solito schema: si nega il problema, si attacca chi lo solleva. E ci pensa il Ministro Valditara a minacciare la bocciatura per chi il prossimo anno non si presenta all’orale. Un modo veloce per non affrontare il problema. Negandolo.
Eppure, la protesta si è allargata. La Rete degli Studenti Medi ha espresso solidarietà, ricordando che le critiche all’Esame di Stato non nascono oggi. Da un anno portano in piazza, nelle assemblee e alle istituzioni ben cento proposte – sul diritto allo studio, ambiente, lavoro, salute mentale – raccolte in un Manifesto. Proposte che però restano inascoltate. Quella sull’orale è solo la punta dell’iceberg. Dietro, c’è una richiesta di riforma più ampia, di senso, di dignità. Un esame considerato discriminante, che non valuta davvero il percorso degli studenti, ma li ingabbia in uno schema standardizzato e competitivo.
Il problema è che gli studenti parlano – anche con rispetto – ma in pochi li ascoltano davvero. Il mondo degli adulti fatica a confrontarsi con loro, a comprendere le ragioni della protesta e le modalità. In poche parole a decifrane il linguaggio. Lo si capisce dalle discussioni sui social, ma anche in contesti in cui il dibattito si fa più serio ed articolato.
È il paternalismo “progressista” che forse assume toni peggiori di quello repressivo: “Io avrei detto…”, “Io avrei fatto…”, “Io al loro posto…”, con la pretesa di voler insegnare ai giovani come si protesta. Ecco, questo è il punto nodale: il bisogno di spiegare ai giovani come essere giovani. Di dirgli come devono sentirsi, parlare, e persino come devono ribellarsi.
Il paradosso si fa grottesco quando a fare più rumore sono proprio quelli che sui social non sanno fare altro che ironizzare, sminuire o insultare. Eppure si sentono in diritto di impartire lezioni di rispetto: verso gli insegnanti, verso chi l’esame lo ha fatto senza fiatare, verso le istituzioni. Sono quelli che neppure si forzano di comprendere le ragioni di questa protesta. Semplicemente evitano di mettersi all’ascolto.
E se il dibattito, anche per effetto della mediaticità del primo caso, si trasforma in una questione pubblica, c’è chi arriva a dire che della scuola può parlare solo chi la vive dall’interno. Ma la scuola è parte fondamentale del sistema sociale. Per questo motivo, chiunque – proprio perché cittadino, genitore, studente o ex studente – ha pieno titolo per esprimersi, confrontarsi e proporre cambiamenti.
Se è vero che gli insegnanti e, più in generale, chi opera nel mondo della scuola conosce gli aspetti tecnici o organizzativi interni, questo non implica che solo loro possano esprimere giudizi o proposte sul sistema scolastico. Non si tratta di definire strategie aziendali, ma di prendere atto di un malessere che è venuto inevitabilmente a galla e che ci coinvolge tutti. Eppure è proprio questo che sembra mancare. I ragazzi parlano, protestano, cercano spazio nel dibattito pubblico, ma non riescono davvero a farsi sentire.
E non è solo il solito scontro generazionale: c’è qualcosa di più. È la paura del cambiamento, l’incapacità di accettare che i linguaggi, i codici e le forme della protesta cambiano. E oggi cambiano in fretta, molto più che in passato.
Si ripete sempre la stessa litania: sono fragili, senza valori, impreparati alla vita. Ma è un disco rotto. Ogni generazione ha giudicato quella successiva allo stesso modo. I nostri genitori storcevano il naso davanti alla nostra musica, ai nostri gusti, ai nostri interessi, allo stesso modo. E oggi molti fanno lo stesso con la musica che piace ai giovanissimi, dimenticando che i valori e pure l’arte, vanno storicizzati, contestualizzati, capiti.
I ragazzi di oggi non sono persi né tantomeno fragili. Sono semplicemente diversi da noi, com’eravamo diversi noi da chi ci ha preceduto. E questo non solo è normale: è sano.
Il problema non sono loro. Siamo noi. Siamo noi che non reggiamo il passo, che non comprendiamo i nuovi linguaggi, che ci sentiamo smarriti di fronte a un mondo che cambia e a una tecnologia che evolve più velocemente della nostra capacità di capirla.
E mentre li accusiamo di essere disimpegnati, io vedo per la prima volta dopo circa trent’anni ragazzi che tornano a occuparsi di politica, di ambiente, di lavoro, di scuola, di giustizia sociale. Forse è proprio questo che ci mette in crisi.
Vedo giovani che rifiutano lavori sottopagati, che scendono in piazza per il clima, contro le discriminazioni, che mettono in discussione il culto della competizione. E noi, invece di ascoltarli e sostenerli gli diciamo che devono prepararsi alle difficoltà della vita come se non esistesse alcuna possibilità di cambiamento. Come se non ci fosse nessun altro mondo possibile al di fuori di questo. Ma loro quelle difficoltà le stanno già affrontando, eccome. Le stanno guardando in faccia, e ci stanno dicendo di no. Lo fanno con parole loro, con modi che magari non capiamo. Ma lo fanno. E questo, volenti o nolenti, è un segnale forte. E chi ne ha paura, prova a ridurlo a capriccio.
(Giovanni Fara)
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