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Guerra da palcoscenico. La parola a Cristian Augusto Grosso


A luglio 2022 indielibri lanciava il “Manifesto contro la guerra del mondo della cultura e dell’arte in Sardegna”. Con l’inizio del 2023 abbiamo voluto intervistare Augusto Cristian Grosso, promotore e primo firmatario dell’appello condiviso e firmato ad oggi da oltre cinquanta personalità.

La propaganda di guerra agisce ormai incontrastata su tutti i media. Le voci contrarie al sostegno armato al governo di Kiev sono completamente oscurate o banalmente accusate di sostenere in questo conflitto la Russia di Puntin. Quanto la potenza mediatica degli organi di informazione incide sull’opinione pubblica che progressivamente pare si stia assuefacendo all’idea della guerra e che in qualche misura occorre accettare passivamente il rischio di un allargamento del conflitto?

Certamente la polarizzazione dello scontro, ormai presente nella narrativa giornalistica odierna, gioca un fattore importante sulla mancanza di una dialettica molto più articolata rispetto alle tifoserie.

Questo ostracismo delle voci dissidenti può spiegare in parte l’assenza di una presa di posizione più incisiva e corposa del mondo della cultura contro la guerra?

Può essere una motivazione, tuttavia le rotture interne ai movimenti sociali e alle organizzazioni politiche rappresentano oggi un ostacolo a una fioritura considerevole di una massa dissidente capace di analizzare l’attuale scontro senza perdersi nella retorica della pace del riarmo in primis nell’ambito della guerra in Ucraina.

Pensi che sia possibile promuovere delle iniziative contro la guerra e contro la censura mediatica di chi vi si oppone? Hai qualche idea in merito?

Le iniziative devono sicuramente e necessariamente situarsi. Davanti a un tema politico non vale la lontananza geografica per liquidare le proprie posizioni ad astrattismi.
Per questi motivi la guerra in Ucraina, va combattuta non solo con una ferma contrarietà ad ogni forma di imperialismo e gioco bellico fra Stati, ma persino con la concreta lotta che si insinui nel luogo dove viviamo e dove vivono enti e fenomeni interessati ad alimentare lo scontro.

La Sardegna, come ben spiegato nel manifesto, subisce l’occupazione di oltre 35mila ettari di territorio da poligoni militari. Oltre il 65% dell’apparato bellico italiano è concentrato su quest’isola che si vede inevitabilmente proiettata al centro degli interessi dei generali e di chi sulla guerra guadagna. Come reagisce l’opinione pubblica e quali sono i limiti del movimento che si batte contro l’economia di guerra e per la smilitarizzazione dell’isola?

Ci troviamo davanti una certa opinione pubblica non solo depoliticizzata ma fortemente caratterizzata da una politica individualista (in senso liberista), che rimane indifferente nei confronti dell’occupazione militare, senza tenere conto delle ricadute negative sul territorio in termini economici, ambientali e sanitari.   

In Sardegna assistiamo a un crescendo delle azioni giudiziarie poste in essere contro chi manifesta il proprio dissenso verso la presenza dei poligoni militari e contro le esercitazioni. Nel 2018 iniziano i guai per il rapper nuorese Bakis Beks, accusato di oltraggio a pubblico ufficiale per aver cantato una canzone in pubblico con un testo esplicitamente rivolto contro la presenza delle basi militari nell’isola. Questo 11 gennaio abbiamo invece appreso dalla stampa di una indagine per danneggiamento e terrorismo avviata contro degli attivisti a seguito di una manifestazione antimilitarista svoltasi tra le vie del centro di Cagliari il 20 maggio scorso, e terminata davanti al Palazzo del Comando Militare, dove della vernice rossa, a contatto con un fumogeno, ha preso fuoco annerendo leggermente la facciata dello stabile. Sono questi tutti segnali di una svolta repressiva tesa a smorzare le proteste contro le basi e a spegnere il dissenso e qualsiasi tentativo di rilanciare un ampio movimento contro la guerra? Che idea ti sei fatto?

È chiaro che ci troviamo in uno scenario politico dove l’azione repressiva inizia a moltiplicarsi e a colpire ogni ramo della politica, dal suo lato più culturale fino all’azione strettamente politica.
La virata a destra in Italia ha reiterato azioni repressive già in atto nei meccanismi precedenti di potere. 
Seguendo le recenti repressioni, rileviamo sempre più nitidamente, quanto l’accanimento giudiziario e poliziesco non si rivolga in realtà alle tipologie di lotte intraprese, ma al contrario le lotte incluse nella penalizzazione sono un palliativo, mentre nel fondo si cerca di delimitare sempre più l’area e lo spazio di attività dell’ambiente antagonista, antimilitarista, anarchico, indipendentista ecc.

Cosa occorre fare secondo te per rilanciare un vasto movimento culturale di opposizione alla guerra?

Situare la cultura e internazionalizzare l’idea di popolo libero ma distinto geograficamente, storicamente e culturalmente.
Dopodiché, non aver paura di opporsi alla guerra senza chiudersi in una tifoseria bellica, e manifestarlo pubblicamente.

La settantatreesima edizione del Festival di Sanremo si preannuncia come una vetrina in sostegno della propaganda di guerra. Nel corso dell’ultima puntata sarà offerto il palcoscenico al Presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky che difficilmente si asterrà dal fare propaganda di guerra,
 come già successo durante l’intervista andata in onda a Porta a Porta il 17 gennaio scorso. Di fronte alla strumentalizzazione persino di una Kermesse musicale importante come Sanremo quali forme di protesta si possono attuare? È plausibile immaginare una forma di boicottaggio del Festival?

Ci ritroviamo davanti un’ennesima forma di spettacolarizzazione, in questo caso bellica.
Certamente il boicottaggio individuale nei confronti del festival è una buona forma, ma va coniugata con una presa di posizione che coinvolga la collettività, fra proteste e dibattito pubblico, come - fra le altre cose - il rifiuto di pagare il canone.

Sempre a Sanremo saranno presenti i Måneskin che, annullando le date dei loro concerti a Mosca e San Pietroburgo si sono già allineati sulla propaganda antirussa. Quanto un gruppo musicale che in larga misura si rivolge alle nuove generazioni può influenzarne le idee, veicolando messaggi a contraddittori rispetto a chi fomenta l
escalation militare?

Pur essendo vero che a canzoni non si fanno rivoluzioni, è importante riconoscere che un gruppo musicale con un vasto potere mediatico può indirizzare il pubblico a un determinato impegno politico. I loro messaggi non fanno che allontanare se stessi all
idea di cultura e musica come strumento di una determinata irriverenza, trasgressione e critica politico-sociale, che nel caso dei Måneskin non va oltre l’immagine di unestetica commerciale fortemente contradditoria con unestetica e concettualità musicale di scontro e di sana ribellione.

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