“Granelli di sabbia”. Intervista con Davide Forte
Granelli di sabbia (Catartica Edizioni, 2025), è una raccolta di poesie e racconti nati all’interno della colonia penale di Is Arenas, durante un laboratorio di scrittura immersiva condotto da Davide Forte. Qualche giorno fa è uscita una recensione sulle nostre pagine (Granelli di sabbia di Davide Forte – Scrivere per ricomporsi), e oggi abbiamo voluto scambiare due chiacchiere proprio con l’autore e ideatore di questo progetto.
1) Il laboratorio da cui nasce Granelli di sabbia si è svolto nella colonia penale di Is Arenas. Che impatto ha avuto sui detenuti che vi hanno preso parte? Quali emozioni o difficoltà sono emerse più spesso durante il laboratorio?
È molto difficile pensare a un carcere come il luogo ideale dove sviluppare un laboratorio di scrittura, soprattutto se si pensa che a scrivere siano proprio i detenuti, mettendosi in gioco direttamente, con carta e penna. Così il laboratorio, per non spaventarli, è stato pensato nel modo più semplice possibile. Si è partiti con una scrittura collettiva, costruita insieme, ognuno con un proprio concetto su un tema. Per esempio ho chiesto loro, visto che eravamo vicinissimi al mare, ma dalla nostra aula non lo si poteva vedere, di abbinare una frase o anche solo un concetto alla parola mare, magari attraverso il ricordo e le emozioni che in esso avevano vissuto. Una volta raccolte le loro impressioni sono state montate in aula sotto forma di un componimento poetico. Alla lettura che ne è seguita i loro occhi si sono illuminati, si sono scambiati pacche sulle spalle e sguardi di approvazione, hanno riconosciuto le loro frasi, le loro emozioni e si sono immedesimati in quelle che gli altri avevano condiviso. Da quel momento, acquisita la consapevolezza di poter fare qualcosa di bello, è diventato tutto più facile.
2) Hai parlato di “scrittura immersiva”. In cosa consiste esattamente questo approccio? Come si struttura un esercizio all’interno del laboratorio?
Certe volte facevo delle letture, solo per introdurli su alcuni temi e stimolare le loro riflessioni, poi però erano completamente immersi nella scrittura, perché la praticavano veramente, liberi di giocare con le parole. Ecco la parola giusta è proprio il gioco, non tanto l’esercizio. Per esempio ho portato con me una valigetta piena di dadi e ognuno di essi aveva diverse figure ai lati; ogni detenuto ne sceglieva uno e lo lanciava, da quelle immagini poi scaturivano delle suggestioni che scaricavano sul quaderno. In un’altra occasione ho fatto loro aprire un libro a caso, mettendo il dito su una parola a caso e, dopo averne trovate una decina, ho detto loro di scrivere qualcosa intrecciandone quante più possibile nella costruzione di un racconto breve o di una poesia. Un’altra volta li ho stimolati a utilizzare la loro penna come fosse una macchina del tempo, che li potesse riportare a un evento lieto o triste della loro vita. La parte più importante però l’ha fatta la loro voglia di comunicare, che in qualche modo veniva sì filtrata e stimolata dai giochi, ma manteneva l’intensità e la verità del loro sentire.
3) Nel libro compaiono diversi proverbi senegalesi, che creano una connessione interculturale profonda. Com’è nata questa scelta?
È il giusto riconoscimento a Ibrahim, un ragazzo senegalese che ha scritto tanto, ma non è l’unico esempio. Il libro è una connessione interculturale costante. Hanno preso parte al laboratorio ragazzi che venivano da Ferrara, da Napoli, da Salerno, da Catania e da Sanremo, solo per citare alcune città italiane. Ma c’era chi come Ibrahim veniva dal Senegal, chi dalla Siria, dalla Tunisia e da altri paesi dell’Africa che si affacciano sul Mediterraneo. Non tutti poi sapevano scrivere in italiano, quindi altri si sono prodigati per tradurre quanto scritto dai propri compagni di corso. C’è stata tanta collaborazione e contaminazione, e tutto questo ha dato maggiore ricchezza agli elaborati, anche nei componimenti collettivi. C’è stato poi un passaparola tra di loro, nelle loro celle si parlava e si diceva che si stava facendo qualcosa di bello durante il corso, così pian piano il numero dei partecipanti al laboratorio è aumentato.
4) “La prospettiva di un comandante”, uno dei testi più intensi del libro, tocca temi complessi come la fuga da un contesto di violenza, l'immigrazione, la speranza e sopraffazione, ed è diventato anche una canzone grazie alla sinergia con Andrea Serpi. Com’è nata l’idea di far dialogare parole e musica?
Andrea è un amico di vecchia data, era stato invitato a partecipare alla festa della musica all’interno del carcere a fine giugno del 2024. In quel periodo il laboratorio si era appena concluso, ma per l’occasione dei detenuti avevano letto alcune delle poesie, che hanno poi fatto parte della raccolta, mentre io li avevo accompagnati con la chitarra. Qualche settimana dopo mi aveva inviato un giro di accordi, chiedendomi di cucirci addosso un testo sulla mia esperienza fatta là dentro. Così questo racconto (un misto tra prosa e poesia), una delle poche cose scritte da me all’interno della raccolta, parla di uno di quei viaggi della speranza, ma anche della disperazione, come ce ne sono tanti purtroppo. La particolarità sta forse in questo timone, simbolo del potere, che passa di mano in mano. E anche a noi può capitare di tenerlo, come il protagonista di questa storia, e di essere artefici di un naufragio, di una catastrofe, come è accaduto a molti dei detenuti che ho conosciuto là dentro. Ed è quando si tocca il fondo che o ci si lascia andare, o si fa di tutto per tornare a galla. Poi, cosa ancora più importante, quando finalmente si riesce a risalire in superficie, fa male essere visti soltanto come gli autori di un disastro. La speranza, invece, è quella di avere un’altra possibilità, un altro sguardo, di essere visti da un’altra “prospettiva”. Insomma nessuno di noi vorrebbe essere ricordato solo per ciò che di sbagliato ha fatto, ma anche per ciò che di bello è capace di fare. Questo sguardo credo di averlo avuto nei loro confronti ed è forse questa la cosa più importante che io ho fatto per loro e, probabilmente, la cosa più bella che loro mi hanno restituito.
5) Il libro è già stato presentato in varie occasioni, alcune con la partecipazione di detenuti in permesso. Che tipo di accoglienza hanno ricevuto fuori dal carcere?
C’è sempre tanta curiosità quando si viene a sapere che sono loro gli autori, magari ci si aspetta che raccontino delle loro disavventure e in qualche modo questo accade, ma la poesia è un modo di togliersi la maschera continuando a indossarla. In effetti parlano della loro vita, della loro storia, ma ci se rende conto che con queste storie abbiamo tante cose in comune, come fossero storie che appartengono al collettivo. Ed è forse per questo che ho visto tanta commozione durante le presentazioni.
In un’occasione abbiamo presentato il libro in un istituto superiore a Carbonia. Davanti a sette quinte classi, in aula magna gremita, abbiamo parlato per due ore con i ragazzi che sono rimasti in assoluto silenzio, tranne poi travolgerci di domande in conclusione, a testimonianza dell’attenzione per i temi trattati.
6) Quanto contano iniziative come questa per chi sta scontando una pena detentiva? Che tipo di ricadute hai osservato sui partecipanti? Riescono davvero, in qualche modo, a portare dentro il carcere un messaggio di speranza?
Il lavoro dell’intera area educativa ha sicuramente un’importanza enorme e questi laboratori sono un valore aggiunto che, forse, dovrebbero avere rilevanza anche fuori da un contesto detentivo, ma lì dentro evidentemente si ha più sete. Una delle cose più belle me l’ha detta un detenuto dopo la prima presentazione a Villacidro, voleva una mia dedica per i suoi figli, proprio lui che all’interno della raccolta aveva scritto tantissimo. “Prima di iniziare questa esperienza ero chiuso dentro il mio mondo triste”, mi ha detto, “poi mi sono riscoperto a fare delle cose che mi fanno stare bene e ad avere una nuova speranza per il cammino che ancora mi attende”.
7) Dal punto di vista umano, cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Sarò sempre grato all’area trattamentale e alla direzione del carcere per avermi dato la possibilità di condurre questo laboratorio, lo ritengo un dono prezioso nel mio percorso senza fine di crescita personale. In particolare i detenuti mi hanno fatto riscoprire l’importanza delle piccole cose, quelle che a loro sono venute a mancare e che molto spesso noi diamo per scontate. Ciò che emerge là dentro è la ricerca della normalità e dell’essenziale, non del sensazionale, come invece spesso accade nella società odierna. Ma avrei una lista lunghissima di cose da dire al riguardo, difficile sgomitolarla nel breve spazio di un’intervista.
8) Hai intenzione di riproporre questo laboratorio in futuro, magari ancora all’interno del carcere di Is Arenas o in altri contesti simili?
Sono arrivate tante richieste, nei contesti più diversi. Sto programmando un corso di scrittura collettiva con una consulta degli anziani, mi piacerebbe ricostruire insieme a loro testimonianze di storie di comunità. Penso che ognuno di noi in fondo sia un filo che esce fuori da una trama molto complessa e affascinante, e loro sono la testimonianza più autentica di queste trame. Sono molto fiducioso, ne verrà fuori sicuramente un bel lavoro. Ci sono alcune proposte, poi, che vengono da un centro di salute mentale e ancora dal carcere. Insomma la speranza è di poter continuare a coltivare questa che rimane la mia più grande passione: la scrittura.
Ti salutiamo ricordando ai nostri lettori che il progetto si chiude con un gesto concreto: i diritti d’autore saranno devoluti a un’associazione che opera all’interno del carcere.
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