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Spotify finanzia la guerra. La musica risponde con il boicottaggio!

Kenze Neke, live - Solarussa (OR) 19/08/2006. Foto: Paolo Angus Carta 
https://www.facebook.com/soskenzeneke



C’è chi con la musica costruisce ponti tra i popoli, e chi con i profitti della musica finanzia droni militari. A giugno 2025, Daniel Ek, fondatore e CEO di Spotify, ha investito 600 milioni di euro – tramite la sua società di venture capital, Prima Materia – nella startup bellica tedesca Helsing, che sviluppa software di guerra e droni autonomi già operativi in scenari come l’Ucraina. Ek è anche presidente della compagnia, e non è nuovo a questo tipo di manovre: un primo investimento da 100 milioni era già arrivato nel 2021. L’obiettivo? Rafforzare la cosiddetta “sovranità tecnologica europea” nel settore militare, un modo per rincorrere la deriva guerrafondaia che ormai imperversa in Europa.

Mentre Helsing produce armi e software per la guerra, Spotify continua a macinare miliardi (15 nel solo 2024), sostenuta dalla musica di artisti di ogni parte del mondo, artisti che attraverso la piattaforma guadagnano briciole e che – più o meno consapevolemente – finiscono per contribuire al finanziamento della guerra.

Una parte della scena musicale ha però deciso di non stare in silenzio. I primi a lanciare il boicottaggio sono stati gli australiani King Gizzard & the Lizard Wizard, che hanno ritirato quasi tutto il loro catalogo da Spotify con un messaggio chiaro: “non vogliamo che la nostra arte sostenga l’industria della morte”. Poco dopo li hanno seguiti i Deerhoof, band sperimentale statunitense.

Sabato 26 luglio, sui social, è arrivata anche la dichiarazione pubblica dei Kenze Neke. La storica band sarda ha annunciato l’uscita definitiva da Spotify. In un comunicato senza giri di parole, ha affermato: La nostra musica non è mai stata fine a se stessa. (...) Ora Spotify è dentro gli investimenti nella devastante tecnologia bellica i cui disumani effetti, ad esempio, sono ben conosciuti dalla popolazione palestinese di Gaza vittima di un genocidio. (...) Non lo farà in nostro nome. (...) Non troverete più i Kenze Neke su Spotify e vorremmo che tanti altri musicisti facessero altrettanto. La musica non deve partecipare al riarmo per delle guerre di cui i popoli non hanno bisogno; la nostra sarà sempre la colonna sonora degli oppressi”.

Tra i commenti all’annuncio dei Kenze Neke è intervenuta anche la band romana Fleurs du Mal, esprimendo apprezzamento e adesione alla loro scelta.

Un po’ ovunque si allarga quindi la rete della protesta e si moltiplicano le voci contro la logica bellicista che sempre più pervade e inquina le nostre vite. 

In Italia, il Coordinamento Stage & Indies, che rappresenta una vasta rete di piccole realtà musicali indipendenti, ha invitato i propri associati a lasciare Spotify entro la fine dell’anno, promuovendo piattaforme alternative come forma concreta di resistenza alla guerra tecnologica. Un segnale importante che mostra come la protesta non riguardi solo i big della musica, ma si stia radicando nella vastissima rete di artisti indipendenti.

Alla campagna di boicottaggio ha contribuito a dare risalto in modo significativo il cantautore italiano Auroro Borealo alias Francesco Roggerosi, che ha lanciato un appello chiedendo a tutti gli artisti italiani di iniziare a riflettere e, come lui, uscire da Spotify. Sono consapevole dell'impatto che avrà su parte della mia attività, ma credo che sia necessario prendere una posizione in un momento storico in cui troppe persone innocenti vengono coinvolte.

La mobilitazione comincia dunque a superare i confini delle singole scene musicali. Inizia a diffondersi un invito chiaro: disinstallare Spotify da qualsiasi dispositivo o computer. Boicottare chi fa affari con la guerra. Isolare chi sostiene le sirene del riarmo. A tutti i livelli.

Durante i concerti, si moltiplicano gli interventi di denuncia. Anche artisti che non hanno (ancora) ritirato il proprio catalogo stanno contribuendo a far crescere il dibattito. Willie Peyote, ad esempio, ha attaccato Ek durante un live, criticando il legame tra cultura e industria bellica. Mannarino ha definito “inquietante” il fatto che i proventi della musica vengano utilizzati per finanziare strumenti di guerra, intervenendo pubblicamente in più occasioni, pur senza annunciare formalmente la rimozione dei propri brani. Piero Pelù, impossibilitato a ritirare la propria musica per via dei diritti sui master, ha definito “uno schifo” l’investimento di Ek, auspicando un boicottaggio di massa della piattaforma.

La questione non è solo etica: è politica, culturale, collettiva.

Chi crea cultura non può ignorare dove finiscono i soldi generati dalla propria arte.
Chi vive di musica ha oggi la possibilità – e il dovere – di trasformare l’indignazione in azione concreta: ritirare i propri brani e denunciare pubblicamente chi lucra sulla guerra.

(Redazione)

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