Intervista al collettivo Malarittas
La presenza del giornalista Molinari alla XIV edizione del Festival Liberevento di Iglesias ha scatenato una polemica accesa, nata soprattutto dalla contestazione pubblica del collettivo Malarittas nei confronti del giornalista, impegnato in un tour di presentazioni del suo libro La nuova guerra contro le democrazie, in cui si diffonde una narrazione capovolta sulla questione palestinese – dove gli aggressori vengono rappresentati come vittime e viceversa – e in cui si sostiene una visione politica faziosa e allineata alla narrazione dominante sul conflitto israelo-palestinese, così come su altri scenari internazionali: dall’Ucraina, al Medio Oriente, passando per l’Africa fino all’Estremo Oriente. Della vicenda ne abbiamo parlato in un nostro articolo (Cultura in Sardegna: tra condizionamenti e ipocrisie), in cui abbiamo sollevato alcuni interrogativi sui condizionamenti della politica sui festival e sui circuiti culturali che contano. In questa intervista incontriamo le Malarittas, per approfondire alcuni aspetti della vicenda e conoscere meglio il collettivo che ha dato il via al dibattito.
1) Partiamo dalle basi: come e quando nasce il collettivo Malarittas?
Malarittas nasce circa un anno fa, dall’esigenza condivisa di alcune persone di mettersi in rete per costruire una realtà transfemminista anche nel Sulcis Iglesiente. Un territorio troppo spesso marginalizzato nei discorsi politici e culturali, anche da parte di realtà più strutturate, spesso centrate su Cagliari.
La nostra scelta non nasce da una logica di competizione o di confronto gerarchico con altri spazi politici, ma dal desiderio di radicare le lotte nei nostri luoghi, con i nostri corpi, nella complessità che solo chi attraversa quotidianamente questi territori può comprendere appieno. Ogni territorio ha bisogni, possibilità e fragilità differenti.
Abbiamo sentito la necessità di creare uno spazio in cui portare avanti pratiche transfemministe e intersezionali, ma anche di costruzione di comunità, mutualismo e pensiero critico. Uno spazio che fosse nostro, ma non chiuso: in relazione con altri collettivi e reti solidali, convinte che la collaborazione tra realtà affini in Sardegna sia fondamentale per resistere e immaginare alternative.
Il collettivo non ha avuto una fondazione “classica”, con un manifesto o una data precisa: è nato nel provare a fare, nelle relazioni, nelle alleanze, e anche nei conflitti. Nel tempo, abbiamo attraversato trasformazioni profonde, alcune anche molto dolorose, che ci hanno insegnato quanto sia difficile, e necessario coltivare pratiche realmente inclusive, capaci di accogliere fragilità e complessità.
Nonostante le fatiche e le fratture, crediamo ancora che incidere nel proprio “accanto” sia una forma potente di politica. Il Sulcis è casa nostra, e lottare qui, per immaginare e costruire un territorio diverso, più giusto, più libero, è ciò che ci ha mosse e che continua a darci forza
2) Vi definite transfemministe. Di cosa vi occupate concretamente? Quali sono state finora le vostre principali iniziative?
Quando diciamo di essere transfemministe, intendiamo che il nostro agire politico parte da un’analisi intersezionale e da un posizionamento chiaro contro ogni forma di dominio: patriarcato, razzismo, abilismo, capitalismo, colonialismo ecc.
Questo si traduce in pratiche che non sono solo “eventi” ma percorsi quotidiani: costruzione di spazi sicuri, cura delle relazioni, presa di parola pubblica, ma anche confronto interno, momenti di crisi e trasformazione collettiva.
Fin dall’inizio, abbiamo costruito le nostre attività attorno a due elementi che per noi sono centrali: la condivisione di letture e riflessioni, e l’espressione artistica come strumento politico. Ci siamo dedicate a organizzare assemblee tematiche e momenti pubblici con l’intento di coinvolgere la cittadinanza, con un linguaggio accessibile, per stimolare il dibattito e innestare, dove possibile, il seme del dubbio, della complessità e del confronto attivo.
Tra le ultime azioni più visibili c’è stata la contestazione pubblica alla presenza di Maurizio Molinari al Festival “Liberevento”, ma abbiamo anche creato e partecipato a manifestazioni, collaborato con associazioni e collettivi locali (non senza difficoltà), e attivato reti con altre realtà transfemministe, anticoloniali e queer in Sardegna.
Le attività assembleari hanno purtroppo subito da qualche tempo, per varie ragioni, una battuta d’arresto, ma ci troviamo ora in una fase di profonda trasformazione e riassetto. Questo momento, seppur difficile, ci ha portate a riflettere sul fatto che ogni cambiamento collettivo passa prima di tutto da un processo di autoliberazione e decostruzione personale. È da lì che vogliamo ripartire, con più consapevolezza e senza perdere di vista la nostra visione politica più ampia.
Crediamo che sia inutile e anche poco coerente con una prospettiva transfemminista pensare di “portare fuori” verità o insegnamenti se prima non si fa un lavoro profondo di messa in discussione su di sé. Tuttə noi cresciamo immersə in sovrastrutture e sistemi di potere che interiorizziamo senza accorgercene. Il cambiamento che desideriamo passa anche e forse prima di tutto da lì.
3) Quanto è difficile portare avanti un discorso transfemminista in una città come Iglesias?
Portare avanti un discorso transfemminista a Iglesias e, più in generale nel Sulcis Iglesiente, significa confrontarsi ogni giorno con una rete fitta di ostacoli. Parliamo di isolamento geografico e culturale, di una scarsa presenza di spazi autogestiti e radicali, ma anche di povertà educativa, patriarcato diffuso, machismo trasversale.
In un territorio come il nostro, il lavoro politico transfemminista si scontra anche con un’assenza quasi strutturale di educazione alle differenze. Non ci riferiamo solo alla scuola, ma a un tessuto sociale più ampio dove spesso manca un linguaggio e una consapevolezza condivisa su temi come identità di genere, razzismo, abilismo, orientamento sessuale o neurodivergenze. Questo rende difficile anche solo accennare certi argomenti senza provocare irrigidimenti o incomprensioni. Ci si trova in un contesto dove manca uno sguardo ampio sulle soggettività e le esperienze che compongono la società, e la capacità di riconoscere tra le persone la pluralità dei vissuti, dei corpi e delle menti, delle relazioni, dei modi di stare al mondo. Quasi sempre è tutto appiattito e codificato secondo uno standard dominante che non lascia scampo a chi attraversa e vive la vita in altri modi. Questo rende difficile il confronto, la messa in discussione di certi privilegi e la costruzione di spazi realmente accoglienti, sicuri e trasformativi.
Ma sarebbe troppo facile attribuire tutto questo alla “chiusura” del territorio. Le strutture di dominio che combattiamo (sessismo, razzismo, classismo, abilismo ecc) sono sistemiche, e si riproducono ovunque, anche nei contesti più apparentemente “avanzati”.
Quello che qui cambia è la solitudine con cui spesso si portano avanti certe battaglie. C’è meno accesso a reti consolidate, meno occasioni di confronto orizzontale, e spesso una certa diffidenza verso le soggettività queer, transfemministe, marginali o fuori dallo standard.
C’è poi una difficoltà specifica nel proporre percorsi nuovi, radicali, fuori dalle logiche abituali, in un contesto dove vige spesso la cultura del “si è sempre fatto così”. In territori piccoli, dove le relazioni di potere e convivenza tra realtà associative sono fragili e interconnesse, mettere in discussione certi equilibri può generare timori legittimi: la paura di perdere appoggi, risorse, o semplicemente “la pace”. E questo spesso porta a una forma di resistenza passiva che ostacola ogni cambiamento reale.
Eppure, è proprio qui che sentiamo l’urgenza di esserci. Nonostante le fatiche, abbiamo trovato anche solidarietà, alleanze impreviste, e persone pronte a mettersi in discussione. I piccoli gesti di ascolto, i momenti di apertura e confronto autentico con chi magari non ha mai avuto accesso a certi discorsi, sono forse la parte più preziosa del nostro agire politico. In un territorio come questo, ogni parola detta fuori dal coro ha un peso maggiore, e ogni seme piantato, anche se non germoglia subito, può fare la differenza.

4) Poche settimane prima della vostra contestazione al Festival Liberevento per la presenza di Molinari, il Comune aveva approvato una mozione per il riconoscimento dello Stato di Palestina. Secondo voi è stata solo una posizione di facciata?
La mozione approvata dal Comune di Iglesias rappresenta certamente un segnale sul piano simbolico, specialmente in un momento storico in cui la questione palestinese rischia spesso di essere oscurata o strumentalizzata da narrazioni faziose. Riteniamo che il riconoscimento formale di uno Stato palestinese sia una richiesta legittima e necessaria per la tutela dei diritti umani e per il rispetto del diritto internazionale.
Tuttavia, troviamo questa posizione fortemente incoerente rispetto ad altre scelte politiche e culturali che si sono concretizzate. Quella più vicina nel tempo ed evidente è stata la scelta di ospitare un personaggio come Molinari, portatore di narrazioni distorte e allineate a visioni dominanti che negano o ribaltano i fatti storici sulla questione palestinese. Quella che passa più in sordina, ma che ha della gravità inaudita, è che tale mozione è stata firmata in un territorio che ospita la fabbrica RWM, che produce bombe e droni militari destinati anche allo stato di Israele.
Questa contraddizione rende ancora più evidente quanto spesso le istituzioni preferiscano mantenere una facciata di progressismo senza mettersi davvero in discussione. Inoltre, dobbiamo anche essere realiste: le mozioni e le dichiarazioni istituzionali, da sole, non cambiano le dinamiche reali sul terreno né interrompono le ingiustizie quotidiane che subiscono le persone palestinesi. Spesso questi atti rischiano di restare chiusi in un circuito simbolico e politico, senza tradursi in azioni concrete e di sostegno effettivo.
In definitiva, il riconoscimento dello Stato di Palestina è un passo che accogliamo con favore, ma da solo non basta: serve un impegno collettivo e costante che coinvolga anche le istituzioni, i circuiti culturali e le comunità locali per mettere in discussione le narrazioni dominanti e costruire un sostegno autentico alla lotta palestinese.
5) E da parte delle persone comuni, quali reazioni avete ricevuto? Vi sono arrivate più critiche o più sostegno?
Le reazioni da parte della cittadinanza sono state molto variegate e spesso riflettono le divisioni e le contraddizioni presenti nella società. Abbiamo ricevuto sia critiche sia sostegno, ma è importante sottolineare che molte delle critiche non sono state semplicemente opinioni diverse, quanto piuttosto attacchi personali, diffamazioni e tentativi di delegittimazione che hanno avuto un impatto molto pesante sul collettivo e sulle singole persone coinvolte.
Dall’altra parte, ci è arrivato molto sostegno, anche concreto e in termini di presenza, da parte di realtà al di fuori del Sulcis Iglesiente: associazioni e collettive impegnate principalmente nella causa palestinese, così come da altre realtà transfemministe sarde. Il giorno della manifestazione a Molinari eravamo insieme allə compagnə del Comitato Sardo di solidarietà per la Palestina che al suo interno ha moltissime associazioni e collettive differenti. Questo supporto è stato per noi fondamentale, perché ha dimostrato che il nostro discorso e le nostre battaglie non sono isolate, ma parte di un più ampio movimento che condivide valori e obiettivi.
Abbiamo anche constatato un sostegno sincero e solidale da parte della cittadinanza che si è sentita coinvolta e stimolata dal dibattito che abbiamo promosso. Questa esperienza ci ha insegnato molto: ci ha mostrato quanto sia ancora difficile affrontare tematiche scomode in un contesto piccolo come il nostro, e quanto sia necessario continuare a lavorare per costruire spazi sicuri e solidali, in cui le persone possano esprimersi liberamente senza paura di ritorsioni e isolamento.
6) Dopo la vostra iniziativa, si è parlato anche del festival “Neanche gli Dei” a Cagliari, criticato per ospiti come l’ex ambasciatrice Elena Basile, il giornalista Simone Spiga, il fotoreporter Giorgio Bianchi e l’ex parlamentare Pino Cabras, accusati di posizioni filorusse. Secondo voi questi due episodi si possono mettere sullo stesso piano o sono molto diversi?
I due episodi non sono affatto paragonabili. Siamo antimilitariste, quindi non parliamo di scale di gravità tra guerre. Riteniamo che la questione riguardi o posizionamenti geopolitici e mediatici: la Russia è sotto sanzioni, non gode del sostegno attivo di nessuna potenza occidentale, e chi è percepito come “filorusso” viene spesso escluso dagli spazi culturali o artistici, anche quando la sua attività non ha nulla a che vedere con la propaganda politica (basti pensare ai recenti casi di annullamenti di spettacoli e concerti).
La situazione Russia-Ucrania ha anche una matrice diversa da quella palestinese. È indubbio che la Russia stia commettendo un sopruso e che non si tratti di uno scontro alla pari (la guerra lo è mai?), ma ognuno dei due stati ha una proprio coinvolgimento nel conflitto. Né le posizioni politiche dell’Ucraina né quelle della Russia sono conciliabili con l’idea di pace. l’Ucraina ha il suo esercito e il suo governo nazionalista è supportato, economicamente e militarmente da molti altri Stati e ha inoltre avuto una forte risonanza mediatica con una narrazione sempre a sostegno del popolo Ucraino (anche se col passare del tempo questa è andata a scemare). Anche per il popolo Ucraino è stata avanzata l’ipotesi di genocidio, ma al momento non è stata confermata. Questo ovviamente non cambia la gravità delle uccisioni, ma la responsabilità di quelle vittime è tanto Russa quanto Ucraina.
Per quanto riguarda la Palestina, come si può parlare di guerra se l’unico esercito ad attaccare è quello di Israele? Il popolo palestinese è stato sistematicamente preso di mira e reso fin dall’inizio inabile a difendersi. Israele non vuole solo il territorio che ha colonizzato, vuole annientare e umiliare il popolo al quale lo ha sottratto. Israele ha ridotto alla fame e alla sete i palestinesi controllando gli ingressi di cibo e di acqua, ostacolando gli aiuti umanitari, impedendo la fuga ai residenti,bombardando scuole, ospedali e ambulanze, lə bambinə sono uno specifico bersaglio da colpire per cancellare il futuro di un intero popolo. Il fatto che questo sia un genocidio è indubbio e sta avvenendo in diretta mentre una gran parte delle poetenze occidentali non mostrano alcun sostegno per il popolo palestinese, ma anzi, continuano a sostenere Israele attraverso un’ampissima legittimazione politica e culturale.
Chi veicola narrazioni sioniste raramente viene messo in discussione. Nessuno chiede a un ospite israeliano se è sionista o se giustifica il genocidio in corso. Nessuno cancella eventi o conferenze per la sola presenza di chi supporta attivamente l’occupazione e l’apartheid.
Nel nostro caso, abbiamo contestato un giornalista che rappresenta e promuove attivamente proprio quella narrazione dominante, a nostro avviso complice di un genocidio. L’abbiamo fatto in modo simbolico e pacifico. Sebbene abbiamo ricevuto molto sostegno dalla cittadinanza, dalla parte politica e delle altre associazioni locali ci siamo scontrate contro un muro.
Dunque no, i due casi non sono sovrapponibili. Entrambi sollevano la questione del ruolo degli spazi culturali nel dare legittimità a certe posizioni, ma usarli come esempi simili o come “versanti opposti” della stessa logica è profondamente scorretto. Non si tratta di bilanciare “due versioni del mondo”, ma di riconoscere quali poteri oggi vengono protetti, e quali voci vengono messe a tacere.

7) Il giornalista Vito Biolchini, che ha presentato Molinari a Iglesias, ha scritto un pezzo in cui, mettendo insieme questi due casi, parla di una “oscura e generalizzata voglia di bavaglio”. Ma è davvero così? Qual è la differenza tra dissenso politico e censura?
No, non crediamo affatto che si possa parlare di “voglia di bavaglio”. Al contrario, pensiamo che confondere dissenso politico e censura sia un’operazione retorica molto pericolosa, perché svuota di significato entrambi i termini.
Il dissenso è una componente essenziale della democrazia: è ciò che permette a chi non detiene potere, o non ha accesso alle grandi piattaforme, di esprimere visioni divergenti, criticare, proporre alternative.
La nostra protesta è stata un gesto simbolico e non violento che voleva esprimere proprio questo: la possibilità di prendere parola, in uno spazio pubblico, rispetto a un evento che consideravamo, e consideriamo tuttora, inaccettabile.
Censura è quando chi ha il potere di decidere cosa può o non può essere detto, agisce per impedire e reprimere la diffusione di idee, opere o pensieri. E non è certo questo il nostro caso. Nessuna ha impedito a Molinari di parlare, nessuna ha boicottato la sua voce con strumenti istituzionali o coercitivi. È intervenuto, ha avuto la sua platea, è stato protetto e promosso dalle istituzioni. Il fatto che delle persone abbiano espresso dissenso rispetto alla sua presenza , dissenso peraltro condiviso da centinaia di persone (la raccolta che abbiamo attivato è arrivata a 744 firme) e numerose realtà sarde, non è censura: è pluralismo, è critica politica, è democrazia.
Ci preoccupa molto di più che chi manifesta dissenso venga descritto come censore, disturbatore o in alcuni casi persino violento. Questo è un meccanismo pericoloso, perché colpevolizza e marginalizza chi prova a rompere il silenzio e a creare uno spazio critico. E infine, c’è un punto importante da chiarire: le parole non pesano tutte allo stesso modo. Il contesto, il ruolo pubblico, l’accesso ai media, fanno la differenza. Equiparare la voce di una persona che contesta in una piazza a quella di un ex direttore di giornale nazionale ospitato con patrocinio comunale non è corretto. Non esiste simmetria tra chi ha potere di orientare la narrazione e chi tenta di decostruirla.
8) Oggi, in Sardegna, c’è davvero spazio per voci critiche e non allineate? Oppure il sistema culturale continua a favorire chi ha già visibilità nel mainstream, escludendo chi solleva questioni scomode e promuovendo invece chi diffonde propaganda politica allineata alla narrazione dominante?
Difficile negarlo: il sistema culturale in Sardegna, come altrove, continua a premiare chi è già legittimato dai circuiti dominanti. Dalle più piccole alle più grandi realtà. È una modalità radicata estendibile e verificabile in qualsiasi territorio. Chi ha visibilità nei media, accesso alle istituzioni e alle risorse viene sistematicamente favorito, mentre chi prova a proporre narrazioni altre, più scomode, più radicate nei territori o più politicamente critiche, viene spesso ignorato, marginalizzato o addirittura ostacolato.
Non stiamo parlando solo di spazi fisici o fondi pubblici, ma proprio della possibilità di esistere nello spazio simbolico, di essere percepitə come interlocutorə legittimə. Chi promuove visioni realmente contro-egemoniche viene spesso trattato come fuori luogo, e talvolta addirittura come “estremista”, a prescindere dai toni e dai contenuti. Eppure, le voci critiche esistono, sono vive e radicate, ma non sempre riescono a trovare i canali giusti per esprimersi. E quando lo fanno, spesso è grazie a reti informali, all’autorganizzazione o al sostegno di comunità che resistono faticosamente, al pensiero “più forte”.
Nel caso specifico di Molinari e del patrocinio istituzionale ricevuto, abbiamo visto chiaramente come il “prestigio” e il posizionamento allineato alla narrazione dominante siano bastati a legittimare una scelta culturalmente e politicamente gravissima. Nessuno si è chiesto chi si stesse invitando, quali valori si stessero implicitamente promuovendo, addirittura cosa ci fosse scritto nel libro che portava. Anzi, chi ha provato a porre la questione è stato accusato di voler “mettere il bavaglio”, di “voler censurare” e di essere “antidemocratichə” e lontane “dai valori costituzionali”.
Il vero problema, oggi, non è la mancanza di idee o di energie critiche. È la mancanza di ascolto, la paura del conflitto, e un sistema che continua a selezionare chi ha già capitale simbolico e a silenziare chi pone domande difficili e scomode. Ma se la cultura deve avere un senso politico, e noi crediamo che ce l’abbia, allora deve saper ospitare il dissenso, deve saper fare autocritica, e deve sapersi mettere in discussione. Altrimenti non è cultura: è decorazione del potere.
(Intervista a cura di Giovanni Fara)
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