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Editoria scolastica e coronavirus


di Maurizio Onnis

Voglio fare un ragionamento sui meccanismi dell’industria d’oggi e sui suoi rapporti con il consumatore, a partire da un caso molto concreto.  
Avete di sicuro letto qualcosa sui danni provocati da Covid-19 all’editoria. Ebbene, ciò che avete letto riguarda l’editoria generalista e quei danni sono niente rispetto all’impatto disastroso del virus sull’editoria scolastica. La quale, lo ricordo, vale solo circa il 13% del totale dei titoli librari pubblicati in Italia: 9.800 su 76.800. Ma copre oltre un terzo delle copie diffuse: 58 milioni su 168 milioni. A dirlo sono i dati Istat relativi al 2018. 
Il decreto Azzolina ha sancito il blocco delle adozioni per l’anno scolastico 2020-21, mettendo in moto un meccanismo a cascata incontrollabile. Eccolo. 
Si è fermata la diffusione dei nuovi testi, che sarebbero finiti sui banchi di scuola nel prossimo settembre e che ora, in primavera, dovevano essere scelti dagli insegnanti per le loro classi. Parliamo di centinaia di nuovi titoli e dei massicci investimenti compiuti dalle case editrici nel passato autunno-inverno per produrli: tutto congelato. Non ci saranno cambi e le scuole manterranno in adozione i testi correnti. È facile prevedere, a settembre, la fortissima espansione del mercato dell’usato, mentre agli editori mancheranno i grandi guadagni provenienti dall’entrata in circolo dei nuovi libri. Le novità di oggi verranno proposte nella prossima campagna commerciale, tra un anno esatto, per la quale difficilmente si produrranno nuovi titoli, soprattutto a causa della mancanza di denaro da investire. Detto in altre parole: Covid-19, se anche domani si arrivasse al contagio zero, ha già provocato il blocco per dodici mesi di una filiera che movimenta non meno di 600 milioni di euro all’anno. 
Moltissima gente è coinvolta: autori, redattori, grafici, ricercatori iconografici, cartografi, agenti commerciali, consulenti, stampatori, distributori. Migliaia di persone, distribuite per lo più tra le redazioni interne alle case editrici e gli studi editoriali esterni. Parecchi vedranno prosciugarsi le loro entrate o finiranno addirittura a spasso. 
Ora, questo sarebbe il momento migliore per ristrutturare un mercato malato: nessuno può negare che lo sia. Troppe novità, additate da più parti come inutili, con un costo che si scarica sempre sulle famiglie, costrette a spendere ogni anno centinaia di euro per libri che appaiono quasi uguali a quelli dell’anno precedente. Una distorsione riconosciuta persino dal governo, che nel tempo ha promosso più di un meccanismo correttivo, subito disatteso: dal tetto di spesa per i libri al blocco delle novità, fino alla norma secondo cui un testo può essere qualificato come “novità” e immesso sul mercato solo se almeno un terzo del suo contenuto è davvero differente dall’edizione precedente. Niente di tutto ciò ha mai davvero prodotto l’effetto desiderato: calmierare il mercato dell’editoria scolastica. 
A me sembra che il nodo della faccenda sia nel consumatore. E consumatori non sono solo lo studente e la sua famiglia, che apre il portafoglio. Consumatore è l’insegnante, perché la scelta del testo da adottare e da usare in classe compete a lui. È lui la chiave che spalanca la porta del mercato agli editori. Sappiamo bene che molti insegnanti, assolto l’obbligo dell’adozione, mettono da parte il libro o lo sfruttano pochissimo, per svolgere una didattica tagliata su misura degli alunni che hanno di fronte. Vengono aiutati in ciò dal ministero dell’Istruzione, che da molto tempo detta per ogni materia non programmi minuziosi ma linee guida all’interno delle quali muoversi, limitandosi a fissare alcuni obbiettivi finali, nel campo delle competenze e delle abilità dello studente. Basterebbe un passo in più. Basterebbe che Roma assecondasse tale tendenza e levasse l’obbligo dell’adozione di un testo preciso per gli insegnanti in grado di inserire nei piani dell’offerta formativa una programmazione didattica adeguata agli obbiettivi generali del ministero. Si può fare. Senza libro. 
È una cosa semplice, una misura d’approccio, e spingerebbe gli editori a ridurre almeno un poco il numero delle novità immesse ogni anno in catalogo. Ma purtroppo non avverrà, perché la pressione degli editori sulla politica è molto più forte della spinta che viene dalla base di famiglie e insegnanti a cambiare le regole del gioco. In questo come in altri campi, i consumatori non riescono a svolgere un’attività di lobby almeno pari a quella dell’industria. Oggi. Domani chissà, perché la strada è questa. E sarebbe bene, ad ogni modo, non sprecare l’occasione offerta da Covid-19 per avviare sul tema riflessioni e azioni concrete a supporto di un mercato editoriale scolastico più sano ed equilibrato.

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