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Il Festival di Sanremo tra censura, omertà e libertà artistica


Benvenuti su “Punto e a Capo”, rubrica di approfondimento curata da Giovanni Fara

Il Festival di Sanremo si è concluso, ma il mondo politico, incline all’aumento delle spese militari e legato alle superpotenze che hanno fatto della guerra il loro marchio distintivo, critica i cantanti che hanno utilizzato il palco di Sanremo per lanciare messaggi di solidarietà ed empatia verso i più deboli, gli immigrati e coloro che soffrono nelle zone di guerra. Questi messaggi sono stati veicolati nel modo più semplice e immediato possibile: attraverso canzoni, appelli e risposte a domande sul valore della solidarietà. Tuttavia, ciò a cui stiamo assistendo ha dell’incredibile: una sorta di caccia alle streghe e una lode alla censura. Si è formato un conformismo del politicamente corretto che non lascia spazio alla libertà di espressione ed artistica.

Questo festival merita una riflessione. Andando oltre alle performance musicali e agli esiti della gara, quest’anno la manifestazione ha catturato l’attenzione per le sue implicazioni sociali e culturali, mettendo in luce questioni di rilevanza politica oltre che umanitaria e artistica. Tanto da aprire un ragionamento sul ruolo della musica e dell’arte in una società dove tutto viene ridotto a puro intrattenimento a beneficio degli interessi economici, trascurando la dimensione della riflessione e dell’arricchimento culturale.

Sanremo rappresenta il fenomeno discografico più importante in Italia, e non sorprende che, dal punto di vista mediatico, oscuri tutto il resto, fagocitando l’attenzione della stampa. Tuttavia, questo solleva interrogativi sulla priorità dei media nel trattare argomenti di rilievo rispetto all’intrattenimento fine a sé stesso. Durante la settimana di Sanremo, tutto sembra seguire le logiche dello spettacolo. Questo si riflette nella riserva di maggiore attenzione da parte dei media nei confronti del ballo cringe del qua qua, che vede protagonista un incredulo e visibilmente irritato John Travolta, piuttosto che concentrarsi sul significato dei testi delle canzoni in gara.

Il primo episodio che ha spinto i media a occuparsi di alcuni dei messaggi trasmessi nelle canzoni è emerso subito dopo l’esibizione di Ghali. L’artista è stato immediatamente attaccato dalla comunità ebraica di Milano per il suo testo, nel quale non fa che un riferimento a un concetto astratto e fondamentale che dovrebbe unire tutti: il rifiuto categorico di sparare sugli ospedali, sui bambini e sui civili inermi. È grave notare che dall’esterno del contesto del festival sia arrivato invece un invito alla censura e alla stigmatizzazione di questa presa di posizione solidale con chi soffre in uno scenario di guerra. Ciò è accaduto senza che nessuno degli addetti alla cultura abbia preso una posizione e si sia sentito offeso nella dignità professionale del proprio ruolo. Tutt’altro, a
 conclusione del festival, l'amministratore delegato della RAI, Roberto Sergio, ha emesso un comunicato in cui esprimeva la sua ferma e piena solidarietà a Israele, nonostante le 100.000 vittime a Gaza in appena quattro mesi, tra morti, feriti e scomparsi. Motivo per cui Israele è oggi sotto processo con l'accusa di genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia dell'AIA.

Nonostante le critiche, Ghali non si è lasciato intimidire. Durante la finale, ha sfondato il muro di omertà gridando dal palco dell’Ariston “Stop al genocidio”, accompagnato dall’alieno, che rappresenta un simbolo del messaggio che vuole trasmettere con la sua cazone “Casa mia”, cioè la scoperta e la riflessione su ciò che ci rende umani, visti attraverso gli occhi di un “alieno” che, in fondo, non è poi così diverso da noi.

Anche Dargen D’Amico, che ha posto al centro della sua canzone il tema dell’immigrazione, ha voluto ricordare che oggi nel Mediterraneo ci sono bambini che vivono sotto le bombe, senza acqua e cibo, concludendo con un appello per il “cessate il fuoco”. D’Amico è poi stato clamorosamente censurato da Mara Venier durante una puntata speciale di Domenica In, mentre cercava di rispondere alla domanda di un giornalista proprio sul tema dell’immigrazione.

Ma qual è il vero scopo di un festival della canzone se i cantanti in gara sono privati della possibilità di spiegare il significato dei loro testi al pubblico e vengono invece zittiti da vecchi parrucconi obbedienti ai poteri politici e mediatici? Questa pratica non fa altro che svilire e rendere sterile l’arte, che dovrebbe invece avere il pieno diritto di esprimersi, contestare e protestare.

Gettando infine uno sguardo sulla presenza sul palco di chi rappresenta contesti sociali e culturali specifici, legati all’ambiente in cui questi nascono, penso al cantante napoletano Geolier. Si può esprimere dissenso nei confronti di un’esibizione, ma il clima culturale generato proprio nel contesto del festival ha scatenato il dilagare di oltre 40.000 messaggi sui social contro il cantante e la città di Napoli. La logica conseguenza di un clima in cui uno spettacolo si presta a diventare un fenomeno di sfogo sociale contrario al cambiamento, promuovendo una cultura dell’intolleranza che nega l’ascolto approfondito e la riflessione sui messaggi intrinseci alla scena musicale contemporanea.

La presenza dei Tenore di Bitti, che hanno accompagnato l’esibizione di Mahmood, è un altro aspetto su cui desidero soffermarmi nel mio ragionamento conclusivo. Sebbene la loro performance sia stata accolta con grande entusiasmo, è interessante osservare come tutti applaudano, nell’ambito del prestigio della kermesse sanremese, ma come troppo spesso, proprio in Sardegna, le tradizioni vengano ridotte al mero folclore da critici e operatori del mondo della cultura, trascurando di mettere in risalto l’enorme ricchezza linguistica, storica e artistica dell’isola all’interno dei più importanti festival. Una tendenza che spazia dalla musica alla letteratura, e che può essere attribuita a dinamiche commerciali ma anche a dinamiche coloniali radicate nel tempo. Non è necessario attendere il riconoscimento da parte di altri, come Amadeus nel caso del Festival di Sanremo, per apprezzare il valore e l’importanza della musica e della cultura sarda, poiché la sua rilevanza è intrinseca alla nostra identità. Tuttavia si può vedere il bicchiere mezzo pieno, perché non mancano quelle operose realtà che lavorano infaticabilmente sul territorio per promuovere e preservare la cultura sarda, spesso al di fuori dei circuiti istituzionali ma fortemente radicate nel tessuto sociale dell’isola.

(Giovanni Fara)
 

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