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Far Filò: Racconti di Vita e Tradizioni del Veneto


Un concorso per racconti: far filò. Racconti Veneti (Regolamento). Il filò, incontrarsi per chiacchierare, raccontare storie per passare il tempo. Storie di vita, storie inventate, storie locali e storie dal mondo. Come raccontare il Veneto? Cosa è diventato? Come si trasformerà?

Città diffusa, periferia infinita, campagna urbanizzata, urbanizzazione campagnola, montagna assediata o abbandonata, collina sfruttata, mare basso. Queste sono le direttrici in cui ci si muove, mi pare, dentro la regione. Ma forse non è così, anzi di certo per molti non è solo così. Mi sono mosso per molti anni, a volte ho pensato davvero troppi, all’interno di questi ambienti non riuscendo a vederne altri. Se non in quel particolare luogo che è la mente, là in fondo essere in Veneto o altrove non mi ha mai fatto una grande differenza. Dipende da dove si guarda oppure cosa si guarda, cosa si sceglie, cosa si evita di scegliere, cosa si sceglie di non scegliere. E di raccontare.

È stato così per me - poca speranza - per un certo periodo e poi me ne sono andato.

E non sono più tornato a starci definitivamente. Anche se definitivamente non vuol dire niente, non ha nessun significato quando si parla della nostra vita. Sono troppe le variabili da considerare. E quando torno ora ci sono altre cose, persone nel frattempo sono cambiate, alcune sono morte, alcune strade non ci sono più, alcuni boschi sono spariti, altri stanno nascendo, pochi. Cos’è questo Veneto?

«Il Veneto è tutto uguale, orizzontalmente, verticalmente, bonaccia, aviosuperficie dismessa, asfissia, campi tritati, mais, soia, noia, fine pena mai, una meravigliosa cella quattro per quattro (4×4) i cui internati, quattro (4) milioni di ex contadini gonfiati dall’insaccato, ulcerizzati dal cabernet, equivalgono a quattro (4) milioni di corpi ammassati, all’ergastolo, che non mi fanno più paura. È finito, il Veneto. Kaputt, come la bombarda austroungarica della Prima Guerra Mondiale fossilizzata nell’argine della Piave, verso la foce, inesplosa da un secolo, non resta che ciamare gli artificieri, i nuovi recuperanti cinesi, farla brillare dai nuovi paroni di casa nostra».
Francesco Maino, Cartongesso, Einaudi, 2014.

Maino sceglie un suo particolare angolo visuale per parlare di Veneto, con una lingua che si ibrida con il dialetto e la descrizione di una situazione al limite, senza speranza. Perché il dialetto è la lingua di molti, anche se non è una lingua. E anche se non si scrive. Ma c’è sempre.

Mi riconosco nel brano di Maino o forse mi sono riconosciuto fino a un certo periodo e poi ho cambiato prospettiva. Chissà se fossi rimasto chissà in cosa mi sarei riconosciuto ora.

So di certo che ci sono mille altri di Veneti da raccontare, mille voci che ancora non hanno raccontato il loro punto di vista. Il rapporto tra l'autore e la terra su cui poggia i piedi, di questo mi verrebbe da scrivere parlando della mia regione natia. Con tutto quello che questa frase può voler dire. Ma l’importante è sentire la terra sotto i piedi, essere in grado di descriverla in qualche forma.

Molti autori hanno scritto di Veneto, hanno scelto la regione delle proprie origini per ambientare i loro romanzi o i loro racconti. Non mi pare si possa prescindere da un attraversamento, da un contatto continuativo, come per mettere in evidenza, citando, Pasolini, la loro esperienza personale, privata, esistenziale. E poi molti altri hanno scritto senza aver letto, almeno in apparenza. Quando invece sembra proprio un invito alla lettura, anche se votata al furto.

«Personalmente, non mi considero neanche un lettore, e tantomeno un lettore intelligente. Le mie letture sono finalizzate al furto. Rubare a un autore vivente, per di più della mia stessa zona, sarebbe imbarazzante, e del resto non ho letto neanche Piovene, Parisi e Rigoni Stern».
Vitaliano Trevisan, Tristissimi giardini, Laterza, 2010.

(Federico Longo)

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