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Intervista a Leonardo Boscani


Leonardo Boscani, photo credit: Rita Delogu
Dal primi di marzo il mondo della cultura è stato costretto a fermarsi, subendo un contraccolpo economico senza precedenti. Un settore che ancora prima della crisi sanitaria era caratterizzato da forte precarietà e scarse tutele professionali, e a cui il futuro non promette alcuna garanzia di sopravvivenza dignitosa.
Ne abbiamo parlato con Leonardo Boscani, artista sassarese, noto per il suo impegno politico e sociale e la capacità di affrontare attraverso le sue opere tematiche di forte impatto, spesso scomode e controverse.
  •  All’inizio del lockdown tantissimi artisti hanno reagito in maniera molto generosa, mettendo a disposizione gratuitamente le loro opere per alleggerire il peso del distanziamento sociale imposto per decreto. A distanza di mesi assistiamo a una progressiva ripresa di tutti i settori produttivi ad eccezione del mondo della cultura, che rischia di subire un contraccolpo economico durissimo. Pensi che le istituzioni stiano riservando la giusta attenzione alle problematiche del settore?
C’è stata un ondata di generosità trasversale che ha investito tutti, da Banksy all’artista emergente, da evasori fiscali come Berlusconi, che hanno “donato” una piccola parte delle loro evasioni fiscali, a chi vive di nero e reddito di cittadinanza. Ma quello che mi preoccupa che questi forti atti di solidarietà arrivano sempre quando siamo tutti nella merda. Dunque a distanza di mesi mi sembra che sia tutto come prima, anzi paradossalmente anche peggio di prima. Le “task force” del sistema Italia, e non solo, in fondo hanno permesso ai vecchi modelli “culturali” di sopravvivere alla loro stessa decadenza grazie al covid-19. L’attenzione delle istituzioni a mio parere c’è stata, ma nel confermare la sopravvivenza del passato. Ma chi non vuole farsi ingabbiare oggi può trovare veramente altre forme di “trasmissione” delle culture. Grande la confusione sotto il cielo  ottime sono le condizioni. 
  • Tutte le manifestazioni e gli eventi previsti per la primavera e per l'estate sono stati cancellati. Al momento l’intera offerta culturale si è spostata sul web e le soluzioni che si prospettano per gli spettacoli dal vivo sono caratterizzate da uno sfoltimento di pubblico. A quali conseguenze andiamo incontro rispetto al nostro  modo di vivere la socialità e al nostro modo di usufruire della cultura?
Diciamo che quello che tu chiami sfoltimento per me ha l’aria di una selezione elitaria. Mi auguro si facciano lavorare gli artisti sardi con basso reddito, bravi e che siano pagati come i grandi nomi del “continente”, se si vuole continuare ad essere solidali. Per quanto riguarda il web, sono di una vecchia generazione. Penso che la rete sia come la dinamite o il nucleare, come un cono gelato a 45 gradi all’ombra, che se non stai attento ti esplode in mano, e che devi mangiarlo in fretta sporcando tutto. Insomma ci hanno messo un bel guinzaglio dorato che ci fa sentire tutti liberi e vivi e militanti dietro e dentro un display. 
  • Sei tra i firmatari dell’appello “Salviamo la cultura sarda” lanciato attraverso la rete “indielibri” il 15 maggio. Vuoi spiegare perché hai aderito e quali dovrebbero essere secondo te le prossime mosse utili a trasformare l’appello in una vera e propria “vertenza per la cultura” in Sardegna? 
Ho aderito perché mi è sembrato un appello nato dal basso e non calato dall’alto, da chi comunque vive in modo privilegiato il suo ruolo d’artista o vuole far da megafono ad una sinistra che ha sempre più due piedi nell’intrattenimento e una scarpa vuota nella cultura. Come ben sai sono molto critico sul reddito di “povertà” che non rende giustizia ad un settore che è ricco se è messo in grado di “produrre” arte. Sarebbe meglio valutare nell’isola quali sono gli artisti che hanno realmente bisogno di una mano e pensare per loro, per noi, dei progetti di sei mesi un anno dentro una comunità, un paese un quartiere e realizzare, coinvolgendo le comunità una opera collettiva che potrebbe essere un libro di racconti o aneddoti di un paese illustrato da un artista , o una scultura, o un graffito o un documentario, una grande danza o un nuovo ballu tundu, un tappeto collettivo insomma un opera che è frutto  della  relazione  diretta tra l’artista e la comunità. In sei mesi ti sei guadagnato onestamente il pane senza chiedere elemosine e senza togliere niente a nessuno, conosci la comunità con qui devi operare, costruisci relazioni e professionalità e finalmente, forse, si solleva quella cortina elitaria tra l’artista e “ il popolo” o meglio la comunità. 
  • Qual è il ruolo di un artista nella società contemporanea? 
Tutti abbiamo un ruolo nella società anche il matto in un villaggio o il più nichilista degli artisti o degli antagonisti. Piuttosto, hanno ancora un ruolo le “diverse culture” nella società dell’intrattenimento usa e getta che ci viene profusa a piene mani senza un attimo di pausa per una riflessione? Ha senso oggi essere un artista o un “intellettuale” in una periferia del mondo dove tutta la sua cultura, la sua storia e la sua lingua sono state, come dicono gli “indipendentisti”, “colonizzata”? Credo ancora di si. 
  • Stai lavorando a un nuovo progetto artistico? 
Vivo di progetti e di visioni e naturalmente di utopie senza rendermene conto. E ti parlo non solo dell’arte ma del quotidiano e spesso il mio quotidiano si intreccia con i progetti e le visioni. In questo momento penso a una struttura segreta di salvaguardia e tutela – da tramandare ai miei discendenti – di tutto quello che non è conforme alla morale o immorale o non storicizzato, senza paletti ideologici e che potrebbe essere a rischio di distruzione e cancellazione, visto l’aria di rivoluzione/reazione molto borghese e “democratica” che si sente nell’aria. Insomma, lo Stato del controllo sociale che ha come fondamenta la distruzione di un popolo e che tiene dentro delle riserve i discendenti di quelle culture legittime, ora ci viene ad insegnare la morale e l’etica del liberismo? Prima di buttar giù statue per conto dei  “democratici” americani ci penserei due volte. I gringos non sono mai stati cultori delle culture altrui, mai nella storia. Dunque conservo prima che venga inghiottito dal mostro della moralizzazione. 
  • Non credi quindi che la protesta accesasi dopo l’uccisione di Floyd a Minneapolis abbia avuto soprattutto il merito di aprire un dibattito globale sul problema delle discriminazioni e sulle sue icone? 
Credere che l’uccisione di Floyd a Minneapolis  abbia questo merito, per me significa che stiamo negando un passato o tanti passati di lotte e di battaglie. Se fosse così, i grandi movimenti internazionalisti della storia moderna che cosa sono stati?  Mi sembra di vedere quel popolo eletto che ogni volta aspetta il messia che non arriva mai. Per quanto riguarda il dibattito globale attraverso i social e i media, la cosa  mi fa un po’ paura, perché spesso diventa elitario e perde di vista il locale, le piccole e grandi storie dei popoli o degli uomini. In questi giorni di grandi battaglie sulle icone e sulle discriminazioni, abbiamo la stessa attenzione per quanti ne stanno crepando nel mediterraneo di nuovi “schiavi”  o quanti ne sbarcano per finire in un CPR?  e di Regeni? Tutti indignati, dai sindaci ai politici, dalle università ai campus e ora si avverte un silenzio da tempi bui della vecchia repubblica, senza contare che la soglia di povertà nel Paese Italia sta aumentando quanto la paura e il “razzismo”. Vogliamo continuare con la lista delle cose lasciate in soli pochi mesi? Brutalmente, per me è un dibattito da ricchi occidentali.

Ti ringrazio Leonardo. Hai sollevato una serie di questioni di non poca importanza, che stimolano un dibattito più ampio al quale credo sia giusto dar seguito. Indubbiamente i fatti di Minneapolis non sono che un episodio in un processo di lotte contro le discriminazioni assai lungo e complesso. Un’ultima considerazione: a Sassari i black lives matter hanno acceso i riflettori proprio sulle condizioni disumane dei migranti nei Centri di Permanenza Temporanea ma anche sulle discriminazioni di genere, e su questioni più legate alla storia sarda, con una critica alle atrocità commesse dai Savoia. Insomma, un modo per riportare le lotte in piazza, fra la gente, unirle contestualizzandole e senza banalizzare.

(intervista realizzata da Giovanni Fara)


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