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A sproposito di Orwell

 


di Davide Barella


Ci sono libri profetici che hanno indubbiamente segnato l’immaginario collettivo, premonendo un futuro del quale avremmo volentieri fatto a meno e con il quale ci troviamo nostro malgrado a fare i conti, dimostrando, una volta di più, di non averci capito nulla. Sono i libri distopici (il contrario degli utopici, nei quali si prefigurava un modo perfetto sovrinteso da una società modello) che in un particolare periodo, dal Dopoguerra alla Guerra Fredda, ammonivano sulle conseguenze future delle scelleratezze presenti e passate. “Il mondo nuovo”, di Aldous Huxley, scritto negli anni 
30, ha spalancato le porte da pioniere a visioni apocalittiche che, particolare qua, particolare là, ci ritroviamo a vivere nel distopico 2020, l’anno più folle di tutti. “Un’arancia a orologeria”, capolavoro di Anthony Burgess (1962), autore famoso dalle mie parti per essere stato colui che ha creato e curato la Biblioteca dei reali del Principato di Monaco, scritto in NadSat, una sorta di grammelot in salsa russo/sassone, ci poneva il problema del libero arbitrio, insieme alla questione del condizionamento mentale e dell’uso strumentale della violenza psicofisica, intollerabile se adoperata in modo privato ma legittimata se strumento di governo e di controllo. In mezzo a questi due estremi si colloca “1984” di George Orwell. Un romanzo scritto nel 1948, in piena ricostruzione di un pianeta che ancora portava le ferite del secondo conflitto mondiale e che viveva di blocchi contrapposti in un crescendo di tensione ideologica. Si veniva dalle Grandi Dittature e si procedeva verso nuove dittature. Orwell, allievo di Huxley, anarchico, socialista militante e combattente, tradito da Stalin, affetto dalla tubercolosi, mal curato, provato nel fisico, malato nel corpo, disilluso nell’animo, immagina un futuro post bellico dove il mondo è diviso in tre grandi nazioni, Oceania (Inghilterra, Americhe, Oceania) Eurasia (Europa continentale, Russia, Asia) ed Estasia (parte dell’Africa, Asia meridionale). In Oceania governa l’IngSoc (nella versione italiana Socing) il Socialismo inglese, la società è divisa in tre classi, il Partito Interno (la classe che decide, dirige e controlla), il Partito Esterno composto da coloro che, vestiti di tuta blu, lavorano nei Ministeri del Partito, e i Prolet, gli operai che vivono le periferie e che sono ininfluenti ai fini del governo, dovendo solo produrre e sopravvivere di sussidi minimi. Il Partito Esterno è pure metafora di quella borghesia cerchiobottista che accetta le regole e allo stesso tempo, in crisi con se stessa, opera un abbozzo di resistenza interna.

Orwell ci introduce lo strumento di controllo per eccellenza: il Big Brother. Quello che noi illuminati contemporanei abbiamo risibilmente trasformato in un reality show. Il Big Brother ci vede e ci sente sempre, ovunque lui ha occhi e orecchie, anche nel bosco, nulla gli sfugge, lui ci condiziona e ci guida, anche se non lo vogliamo. Tutto però si basa su un equivoco di fondo, per nulla trascurabile. Nella lingua inglese Big Brother non è il Grande Fratello, ma il Fratello Maggiore. Questo introduce una bellissima contraddizione di fondo: siamo tutti fratelli, in nome dell’uguaglianza socialista, ma pure in questa vi è una gerarchia interna, poiché vi è un Fratello Maggiore, che, di riflesso, presuppone l’esistenza di un Fratello Minore. Non si tratta di un aspetto affatto trascurabile, anzi. È un principio che si afferma in una definizione. Anche sul fatto che il Partito decida di rinnovare il linguaggio immaginando che nell’arco di un secolo si affermi una nuova lingua al posto della precedente deve fare riflettere. Indebolire il linguaggio, liofilizzarlo, impoverirlo, equivale a ridurre considerevolmente e progressivamente la capacità di articolazione del pensiero. Anche qui c’è spazio per una riflessione di natura filologica. In Orwell si parla di NewSpeak, tradotto in Italiano come NeoLingua. Invece sarebbe più opportuno riferirsi a NuovoParlare. Che è diverso, eccome! La cosa che spacca in due il finale del libro è la riflessione metapolitica. Winston Smith, l’uomo comune, il ribelle che pensando contro il Partito e redigendo un diario di nascosto, aderendo inoltre alla Fratellanza (anche qui, tutti fratelli) guidata dal ribelle dissidente Emmanuel Goldstein (una sintesi fra il simbolo della comunità ebraica perseguitata e il pensiero troskjista esiliato) vi si schiera contro, viene torturato brutalmente nella speranza ch’egli possa rinnegare il proprio pensiero e tradire il proprio credo. Infatti Winston si macchia di psicoreati: non si può pensare diversamente dal Partito, perché si viene puniti duramente. Il Partito non ti elimina se non la pensi come lui: prima di farlo, perché lo fa, inesorabilmente e platealmente, ti deve avere ricondotto, in modo consapevole, dalla sua parte. La violenza che riduce l’uomo a un cumulo di macerie è lo strumento, fine a se stesso, di esercizio del potere. L’uomo di 1984 vive in metropoli devastate dalla guerra, in povertà, immerso nel grigiore, elemento complementare della devastazione circostante, in balia dei topi come carne da macello. A pochi chilometri dallo sfacelo vi è la campagna inglese, il suo bosco, un piccolo Eldorado dove consumare furtivamente amore e sesso, sentimenti e pratiche vietate dal Partito perché considerati come elementi di corruzione del corpo e della mente. È lì, vicino, ma non si può avere, non ne si può fruire.

Fra le cose che restano in mente dopo aver letto il libro in età consapevole ci sono due concetti talmente semplici da far correre i brividi lungo la schiena. “Libertà è poter dire che 2+2 fa 4”. No, se il Partito non è d’accordo 2+2 può fare a volte 5, a volte 3. E Winston accetterà questo teorema, alla fine, come tutti gli altri dissidenti prima di lui. Perché la detenzione, le percosse, le torture non lo piegano, ma egli si arrende alla Stanza 101. Nella stanza 101 si applica una tortura individuale e specifica. Nella stanza 101 il Partito ti mette di fronte alla tua paura più profonda e per questo irresistibile. Winston cede davanti a quei topi che nel film, tratto dal libro, hanno presumibilmente divorato la madre e la sorellina. Questo ci fa cedere i nervi, perché resistiamo a tutto ciò che ci circonda, ma non a noi stessi e alle nostre paure più intime.

“Il fine del potere è il potere”. Non il denaro, non il governo, non altro. È solo il potere. basta averlo ed esercitarlo, in modo assoluto, per appagare chi lo utilizza.

1984 è il libro che in questo periodo più di tutti gli altri viene tirato in ballo, come citazione che vuole essere ostentata e colta. Se non citi Orwell durante la pandemia e le conseguenti crisi economiche e sanitarie, non sei nessuno. Orwell ci mette in guardia, 72 anni fa, dalle conseguenze dell’impoverimento della lingua, della sua mistificazione, dal potere ipnotico della comunicazione, dalla spietata possibilità di controllo esercitato da pochi, che si permettono beni di lusso e servitù (“puoi chiedere al mio servo”, “assaggia: si chiama vino”) sui molti, attraverso i media. Ma soprattutto ci dice che il potere è una irresistibile perversione (“il potere non è un mezzo, è un fine”). Risultato: citiamo Orwell a sproposito perché di lui conosciamo i reality show ispirati dalla sua filosofia, ma non sappiamo che il fine è il potere sui cervelli anche attraverso i reality show. La NeoLingua, che è in realtà un NuovoParlare, lo abbiamo già introiettato nel nostro NadSat contemporaneo; ti lovvo, ti taggo, apericena, movida... Il Big Brother sta in un algoritmo. Recenti studi confermano che un numero limitato di likes dà di noi informazioni precisissime, stabilendo con esattezza i nostri gusti e conoscendoli meglio dei nostri stessi amici. 

Il problema maggiore si pone quando Orwell viene citato dai politici. Il dubbio, più che lecito, è se lo abbiano davvero capito, oltre che letto... 1984 è un libro a-ideologico di antipolitica, dove la propaganda sistematica si alterna solo all’artificiosità della stessa. Il nemico del partito, Goldstein il traditore, ha scritto un libro, un trattato sull’oligarchia che è la Bibbia dell’auspicata rivoluzione interna della classe media. Ad aiutarlo tuttavia nella compilazione e nella sua diffusione clandestina ci hanno pensato i membri stessi del Partito Interno. “La guerra è pace”, predica il Partito; sì, perché la guerra, le sue dinamiche, le sue tensioni, le sue aporie sono gli strumenti per mantenere lo status quo, per tenere occupato il popolo mentre si esercita il teorema del potere. Che sia la guerra combattuta con le bombe piuttosto che con i soldi, con l’ignoranza funzionale o con la sanità strumentale poco cambia. È, come dice Orwell, esercizio di potere. Che non è un mezzo, ma un fine.


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